Soffiava sul lago una
breva fredda,
infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli
scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da
Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le
onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche
incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera
del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in
fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una
stanchezza della
breva; e dietro al
cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in
soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la
grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva,
guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la
mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non
compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la
tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a
traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva,
percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che
oscillavano appena.
«Pin!», gridava Pasotti sempre più arrabbiato.
«Pin!»
Non rispondeva che l'eguale, assiduo tuonar delle
onde sulla riva, il cozzar delle barche fra loro. Non c'era, si
sarebbe detto, un cane vivo in tutto Casarico. Solo una vecchia
voce flebile, una voce velata da ventriloquo, gemeva dalle tenebre
del portico:
«Andiamo a piedi! Andiamo a
piedi!»
Finalmente il Pin comparve dalla parte di San
Mamette.
«Oh là!», gli fece Pasotti alzando le braccia.
Quegli si mise a correre.
«Animale!», urlò Pasotti. «T'han posto un nome di
cane per qualche cosa!»
«Andiamo a piedi, Pasotti», gemeva la voce flebile.
«Andiamo a piedi!»
Pasotti tempestò ancora col barcaiuolo che staccava
in fretta la catena del suo battello da un anello infisso nella
riva. Poi si voltò con una faccia imperiosa verso il portico e
accennò a qualcuno, piegando il mento, di venire.
«Andiamo a piedi, Pasotti!», gemette ancora la
voce.
Egli si strinse nelle spalle, fece con la mano un
brusco atto di comando, e discese verso il
battello.
Allora comparve ad un'arcata del portico una vecchia
signora, stretta la magra persona in uno scialle d'India, sotto al
quale usciva la gonna di seta nera, chiusa la testa in un
cappellino di città, sperticatamente alto, guernito di rosette
gialle e di pizzi neri. Due ricci neri le incorniciavano il viso
rugoso dove s'aprivano due grandi occhi dolci, annebbiati, una gran
bocca ombreggiata di leggeri baffi.
«Oh, Pin», diss'ella giungendo i guanti canarini e
fermandosi sulla riva a guardar pietosamente il barcaiuolo.
«Dobbiamo proprio andare con un lago di questa
sorte?»
Suo marito le fece un altro gesto più imperioso,
un'altra faccia più brusca della prima. La povera donna sdrucciolò
giù in silenzio al battello e vi fu fatta salire, tutta
tremante.
«Mi raccomando alla Madonna della Caravina, caro il
mio Pin», diss'ella. «Un lago così brutto!»
Il barcaiuolo negò del capo,
sorridendo.
«A proposito», esclamò Pasotti «hai la
vela?»
«Ce l'ho su in casa», rispose Pin. «Debbo andare a
prenderla? La signora qui avrà paura, forse. E poi, ecco là che
vien l'acqua!»
«Va'!», fece Pasotti.
La signora, sorda come un battaglio di campana, non
udì verbo di questo colloquio, si meravigliò molto di veder Pin
correr via e chiese a suo marito dove andasse.
«La vela!», le gridò Pasotti sul
viso.
Colei stava lì tutta china, a bocca spalancata, per
raccogliere un po' di voce, ma inutilmente.
«La vela!», ripeté l'altro, più forte, con le mani
accostate al viso.
Ella sospettò d'aver capito, trasalì di spavento,
fece in aria col dito un geroglifico interrogativo. Pasotti rispose
tracciando pure in aria un arco immaginario e soffiandovi dentro;
poi affermò del capo, in silenzio. Sua moglie, convulsa, si alzò
per uscire.
«Vado fuori!», diss'ella angosciosamente. «Vado
fuori! Vado a piedi!»
Suo marito l'afferrò per un braccio, la trasse a
sedere, le piantò addosso due occhi di fuoco.
Intanto il barcaiuolo ritornò con la vela. La povera
signora si contorceva, sospirava, aveva le lagrime agli occhi,
gittava alla riva delle occhiate pietose, ma taceva. L'albero fu
rizzato, i due capi inferiori della vela furono legati, e la barca
stava per prender il largo, quando un vocione mugghiò dal
portico:
«To', to', il signor Controllore!», e ne sbucò un
pretone rubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello di
paglia nera, il sigaro in bocca e l'ombrello sotto il
braccio.
«Oh, curatone!», esclamò Pasotti. «Bravo! È di
pranzo? Viene a Cressogno con noi?»
«Se mi toglie!», rispose il curato di Puria,
scendendo verso il battello. «To' to' che c'è anche la signora
Barborin!»
Il faccione diventò amabile amabile, il vocione
dolce dolce.
«Ha in corpo una paura d'inferno, povera diavola»,
ghignò Pasotti, mentre il curato faceva degli inchinetti e dei
sorrisetti alla signora, cui quel minacciato soprappiù di peso
metteva un nuovo terrore. Ella si mise a gesticolare in silenzio
come se gli altri fossero stati sordi peggio di lei. Additava il
lago, la vela, la mole del curato enorme, alzava gli occhi al
cielo, si metteva le mani sul cuore, se ne copriva il
viso.
«Peso mica tanto», disse il curato, ridendo. «Tâs
giò, ti», soggiunse rivolto a Pin, che aveva sussurrato
irriverentemente: «Ona bella tenca».
«Sapete», esclamò Pasotti, «cosa faremo perché le
passi la paura? Pin, hai un tavolino e un mazzo di
tarocchi?»
«Magari un po' unti», rispose Pin, «ma li
ho.»
Ci volle del buono per far capire alla signora
Barbara, detta comunemente Barborin, di che si trattasse adesso.
Non lo voleva intendere, neanche quando suo marito le cacciò in
mano, per forza, un mazzo di carte schifose.
Ma per ora non era possibile, giuocare. La barca
avanzava faticosamente, a forza di remi, verso la foce del fiume di
S. Mamette, dove si sarebbe potuto alzar la vela, e i cavalloni
sbattuti indietro dalle rive si arruffavano con i sopravvegnenti,
facevano ballare il battello fra un bollimento di creste spumose.
La signora piangeva. Pasotti imprecava a Pin che non s'era tenuto
bastantemente al largo. Allora il curatone, afferrati due remi, ben
piantata la gran persona in mezzo al battello, si mise a lavorar di
schiena, tanto che in quattro colpi si uscì dal cattivo passo. La
vela fu alzata, e il battello scivolò via liscio, a seconda, con un
sommesso gorgoglio sotto la chiglia, con ondular lento e blando. Il
prete sedette allora sorridente accanto alla signora Barborin che
chiudeva gli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti batteva
impaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognò
giuocare.
Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio
adagio, velando le montagne, soffocando la
breva. La signora
andava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il vento, giuocava
rassegnata, pigliandosi in pace gli spropositi propri e le sfuriate
di suo marito. Quando la pioggia incominciò a mormorar sulla tenda
del battello e sull'onda morta che andava tutt'ora, quasi
senz'aria, agli scogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene
di calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin
respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss'ella teneramente; e si
mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, con un brio, con una
beatitudine in viso, che non si turbavano né di spropositi né di
strapazzate.
Molti giorni di
breva e di pioggia,
di sole e di tempeste sorsero e tramontarono sul lago di Lugano,
sui monti della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocata
dalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delle dogane a
riposo, e dal curatone di Puria, nel battello che costeggiava
lento, in mezzo ad una nebbiolina di pioggia, le scogliere di S.
Mamette e Cressogno. Quando rivedo nella memoria qualche casupola
nera che ora specchia nel lago le sue gale di zotica arricchita,
qualche gaia palazzina elegante che ora decade in un silenzioso
disordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio della
Madonnina, caduti con le generazioni che li veneravano; tante
figure umane piene di rancori che si credevano eterni, di arguzie
che parevano inesauribili, fedeli ad abitudini di cui si sarebbe
detto che solo un cataclisma universale potesse interromperle,
figure non meno familiari di quegli alberi alle generazioni
passate, e scomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noi
molto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltava a guardar
il ponente, parevano lontani più del vero, dietro la pioggia, il
San Salvatore e i monti di Carona.
Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come
l'aspetto del cielo e del lago, caduta la
breva che aveva
fatto tanta paura alla signora Pasotti. La gran
breva del 1848, dopo
aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo con le nuvole
pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere e piovere i giorni
quieti, foschi, silenziosi dove cammina questa mia umile
storia.
I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e
il Bagatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi
d'importanza, minute potenze tollerate benevolmente nel seno del
grande tacito impero d'Austria, dove le loro inimicizie, le loro
alleanze, le loro guerre erano il solo argomento politico di cui si
potesse liberamente discutere. Anche Pin, remando, ficcava
avidamente sopra le carte della signora Barborin il suo adunco naso
curioso, e lo ritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per
tenervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbe cavata da
un passo difficile, cosa avrebbe fatto di una certa carta
pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere. Suo marito picchiava
impaziente sul tavolino, il curatone palpava con un sorriso beato
le proprie carte, e lei si stringeva le sue al petto, ridendo e
gemendo, sbirciando ora l'uno ora l'altro de' suoi
compagni.
«Ha il Matto in mano», sussurrò il
curato.
«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse
Pasotti e gridò picchiando:
«Giù questo Matto!».
«Io lo butto nel lago», diss'ella. Gittò un'occhiata
a prora e trovò lo scampo di osservare che si toccava Cressogno,
ch'era tempo di smettere.
Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a
infilare i guanti.
«Trota, oggi, curato», diss'egli mentre l'umile
sposa glieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin di
Ghemme.»
«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo so
anch'io. Me l'ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che miracoli, eh,
la signora marchesa!»
«Ma, miracoli? Pranzo di Sant'Orsola, intanto; e poi
invito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Carabelli di
Loveno, sa?»
«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche
progetto… ? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, il
giovinotto! Non gliel'ho mai vista.»
Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco
discosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si cullava in un
comune moto di saliscendi, in una comune stanchezza con l'onda. A
poppa, sotto la bandiera, v'era seduto don Franco Maironi,
l'abiatico della vecchia marchesa Orsola che dava il
pranzo.
Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e
allontanarsi remando adagio, verso l'alto lago, verso il golfo
selvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spiegava tutta,
sventolava sulla scia.
«Dove va, quell'originale?», diss'egli. E brontolò
fra i denti, con una forzata raucedine da
barabba
milanese:
«Antipatico!»
«Dicono ch'è così di talento!», osservò il
prete.
«Testa pessima», sentenziò l'altro. «Molta boria,
poco sapere, nessuna civiltà.»
«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella
signorina… »
«Quale?», chiese il curato.
«La Carabelli.»
«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini
e i tartufi bianchi sono per la
popòla Carabelli,
son buttati via.»
«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con una
vampa di curiosità negli occhi.
Il prete non rispose perché in quel punto la prora
strisciò sulla rena, toccò all'approdo. Egli uscì il primo; quindi
Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimica imperiosa, non so
quali istruzioni, e uscì anche lui. La povera donna venne fuori per
l'ultima, tutta rinfagottata nel suo scialle d'India, tutta curva
sotto il cappellone nero dalle rosette gialle, barcollando,
mettendo avanti le grosse mani dai guanti canarini. I due ricci
pendenti a lato della sua mansueta bruttezza avevano un particolare
accento di rassegnazione sotto l'ombrello del marito, proprietario,
ispettore e geloso custode di tante eleganze.
I tre salirono al portico col quale la villetta
Maironi cavalca, da ponente, la via dell'approdo alla chiesa
parrocchiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra un
sospiro di dolcezza e l'altro, certo indistinto odore caldo che
vaporava dal vestibolo aperto della villa.
«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un
lume di cupidigia in faccia.
Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le
ciglia, con manifesto disprezzo di quell'altro
naso.
«Risotto no», diss'egli.
«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato.
«Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?»
Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando
l'aria come bracchi, rumorosamente.
«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di
parlare di
posciandra», disse
Pasotti dopo una lunga pausa, alludendo a certa rozza pietanza
paesana di cavoli e salsicce. «Tartufi si, risotto
no.»
«Posciandra,
posciandra», borbottò l'altro, un
poco offeso. «Quanto a quello… »
La povera mansueta signora capì che litigavano, si
spaventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll'indice
destro, per significare che lassù potevano udire. Suo marito le
afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poi le soffiò
nella bocca spalancata: «Risotto!»
Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si
strinse nelle spalle. «Non capisce un accidente», diss'egli: «il
tempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Il grosso
curato volle dare un'altra occhiata alla barca di don Franco.
«Altro che Carabelli!», pensò; e fu richiamato subito dalla signora
Barborin che gli raccomandò di metterlesi vicino a tavola. Aveva
tanta soggezione, povera creatura!
I fumi delle casseruole empivano anche la scala di
tepide fragranze. «Risotto no», disse piano l'avanguardia. «Risotto
sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. E così
continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risotto no» fino a
che Pasotti spinse l'uscio della sala rossa, abituale soggiorno
della padrona di casa.
Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro
alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti
metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo
con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all'inferno la
maledetta bestia.
«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la
vecchia marchesa. «Cara signora, caro Controllore,
curato.»
La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma,
con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per la
signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in
piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte
marmorea e la parrucca nera che le si arrotondava in due grossi
lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e
serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà
fredda che non mutava mai, come lo sguardo come la voce, per
qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fece due o tre inchini a
scatto, stando alla larga, ma Pasotti le baciò la mano, e la
signora Barborin, sentendosi gelare sotto quello sguardo morto, non
sapeva come muoversi né che dire. Un'altra signora si era alzata
dal canapè all'alzarsi della marchesa e stava guardando con
sussiego la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchia
rinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suo marito»,
disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»
Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia,
donna Carolina, stava in piedi presso la finestra discorrendo con
una favorita della marchesa, nipote del suo
fattore.
La marchesa non stimò necessario d'incomodarla per
presentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese una pacata
conversazione con donna Eugenia sulle loro comuni conoscenze
milanesi, mentre Friend faceva, fiutando e starnutendo, il giro
dello scialle canforato della Pasotti, si strofinava sui polpacci
del curato e guardava Pasotti con i suoi occhietti umidi e
afflitti, senza toccarlo, come se intendesse che il padrone dello
scialle indiano, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto
il collo volentieri.
La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita
grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di
rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli
occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie
dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune
malcontento. Ciascuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spenti
dell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una volta
entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor
Paolo Sala detto «el Paolin» e col grosso signor Paolo Pozzi detto
«el Paolon», compagni indivisibili. Un'altra volta entrò il
marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d'Italia, con
la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato
accanto a una seducente figura di fanciulla
briosa.
Sì la prima che la seconda volta un'ombra di
corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei
girava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, ma poi
chiacchierava e rideva più di prima.
«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?»,
disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla
marchesa la tabacchiera aperta.
«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi un
poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? a dirle la
verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e
adesso non lo vedo. Non vorrei… »
«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca.
L'abbiamo visto un momento fa che remava come un
barcaiuolo.»
Donna Eugenia spiegò il ventaglio.
«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in
furia. «È un bellissimo divertimento.»
Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a
mordicchiarlo con le labbra.
«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la
marchesa nel suo naso imperturbabile.
«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò il
prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia.
«Piove!»
«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse
la nipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al
lago.
«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero che
stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo
ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non
si vede?»
«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando il
signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava
da trent'anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. «El
sior Zacomo… »
«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto di
burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si
dica
Zacomo.»
Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia
da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da
certe croniche patavinità. Mentre Pasotti protestava, con
cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce
dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio si aperse una terza volta.
Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a
guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta
flemma su don Franco.
Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio
di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Aveva perduto la
madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna
Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti,
che l'aveva fatto soprannominare el
scovin d'i nivol, lo scopanuvoli.
Aveva occhi parlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia
simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia
accigliata diceva ora molto chiaramente: «Son qui, ma mi seccate
assai».
«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e
soggiunse tosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Carolina
desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»
«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al
giovine con aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace,
Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le
signorine.»
Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta e
andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'un buon
quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio.
Donna Eugenia Carabelli fremeva.
Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo
un'arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze.
Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia
Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di
successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime
questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia
relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non
s'erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro
involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie,
che si attraevano come si attraggono una goccia d'acqua marina e
una goccia d'acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono
nell'una e nell'altra sieno condannate, se le due gocce si
uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto,
apparentemente in grazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei
denari, era stato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno,
perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della
madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con
quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna
Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la
marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una
umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d'un colpo la
vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo
avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer
indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo.
La marchesa serbava la sua esterna placidità
marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento
contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il
permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non
ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso
impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non
più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che
quella gente non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era
quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per
toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non
troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane
una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente
e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben
sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e
di quella «madama Trappola», poiché chiamava graziosamente così la
signorina Luisa Rigey.
La famiglia Rigey, composta di due sole signore,
Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era
difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di
nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia
d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il prefetto della
Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui
Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva
tenuto questo bel discorso: «Don Franco fa il morto da burla fino a
che la vecchia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la
marchesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» e cambiò
discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si
trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che
l'umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta
la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto,
ma di fronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a
Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distratto e disse
che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua
vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire
la Carabelli.
Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don
Franco non s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fatto
una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei
pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua
faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la
marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non
poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver
giuocato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella si era
messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo
torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e
prediletto sé. Ora le piacque si supporre che dopo il suo sermone
matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una
parolina di miele, di vischio e di veleno. Se il suo disinganno
aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina
Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. ciò
non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva
torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di
lei: «L'è on' Aüstria p… ». Come la vecchia Austria di quel tempo,
la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La
sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già
di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la
ragazza Carabelli, che aveva l'aria di sentire e volere per conto
proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita
incomoda, una torbida Ungheria.
Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e
nell'abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le
idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini
econome.
«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella,
senza muoversi.
«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontrato
stamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a
pranzo?". È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha
cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì, credo, no so, forse, no
digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so,
insomma, e apff!". Non ne ho cavato altro.»
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse
qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il
curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le
ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva
petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri
si guardavano, muti.
La povera signora Barborin, avendo visto il
domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce
sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo
marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea
occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Se fosse bruciato il
pranzo!", pensava componendosi un viso indifferente. "Se ci
mandassero a casa! Che fortuna!". Dopo due minuti il domestico
ritornò e fece un inchino.
«Andiamo», disse la marchesa,
alzandosi.
La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio
nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un
lungo naso spiovente sul mento.
«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto
timido e umile, «io avrei già pranzato.»
«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la
marchesa che sapeva praticare l'arte insolente della sordità come
tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio
comodo e il proprio gusto.
L'ometto non osò replicare, ma neanche osava
sedere.
«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin
che gli era vicino. «Cosa fa?»
«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto.
Infatti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti,
venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori
Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a
casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di
sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali
sarebbero stati tredici.
Un liquido bruno fumava nella zuppiera
d'argento.
«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli
dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere
udito.
I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e
questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era
pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso,
mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a
vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di
Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di
quest'ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del
gomito.
Le voci che più si udivano erano quelle del marchese
e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il
suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla
bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi
ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa
superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa,
ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il
marchese era l'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente
anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell'amarezza
dell'animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone,
s'attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far
dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non
capiva com'egli potesse essersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il
marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi
aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase
sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso
parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La
marchesa non mostrò turbarsi; il Paolin, il Paolon e il prefetto,
valsoldesi, tacevano con tanto di muso.
Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del
«Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo,
che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non
parve gradir l'elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. «A
piedi no, tu, Eugenia», disse la marchesa, sapendo che l'amica sua
era tribolata dallo spavento d'ingrassare. «Bisogna vedere com'è
stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi
di sicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è minga el Cors
de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'è poeu nanca,
disgraziatamente, le chemin du
Paradis!»
«Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò il
Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di
Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin gli disse
qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», rispose l'ometto acceso in
faccia. «Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi
è mai più toccata in vita mia.» E qui raccontò che la mattina,
venendo da Lugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era
disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra
quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva
incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato
perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l'avevano
condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo
di musica manoscritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le
crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete,
gliel'aveva trattenuto.
Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa
sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva
sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor
Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti
confermò, con una faccia severa. «Ottimo funzionario», diss'egli.
«Ottima canaglia», mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che
sulle prime pareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a
Pasotti un'occhiata sprezzante.
«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che col
pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo…
»
«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura,
mentre la padrona di casa lo era per convinzione.
Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada
per non servire gli Austriaci, sorrise e disse
solo:
«Là! C'est un peu
fort!».
«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel
Ricevitore!», esclamò Franco.
«Scusi, don Franco… », fece
Pasotti.
«Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un
bestione!»
«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un
impiegato che fa il proprio dovere.»
«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté
Franco.
«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi
discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in
Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzata d'approvazione.
Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo
spezzò d'un colpo sulla tavola. «Jesüsmaria!», esclamò il
Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni
di mangiatore sdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi
con la faccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dal
salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla
fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una
parte mentre il domestico entrava dall'altra portando un pasticcio
di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma
Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il
Viscontini, reo apparente, continuava a dire: «Mi capissi nagott,
mi capissi nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato,
gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese, molto
scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un'aria
d'affettuosa tristezza, disse come tra sé: «Peccato! Povero don
Franco! Un cuor d'oro, una buona testa, e un temperamento così!
Proprio peccato!».
«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito:
«Sono gran dispiaceri!».
Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano.
Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si
accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla
credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò
dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. «Volevo solo dirle»,
fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e
non lasciarlo vedere, «che ci sono i tartufi
bianchi.»
«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri»,
osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime
parole.