Il trionfo della morte

Gabriele D'Annunzio


Pubblicato: 1894
Categoria(e): Narrativa, Romanzo

A Francesco Paolo Michetti

Pongo il tuo nome anche in fronte a questo libro che sopra tutti singolarmente tu prediligi, o Cenobiarca: in fronte a questo libro che io ti ho scritto con curiosa lentezza nella sede dell'Arte Severa e del Silenzio.

Poi che l'ultima pagina fu compiuta, tu avesti comune con me quella sùbita ingannevole gioia su cui più tardi il crepuscolo primaverile diffuse un così puro velo di malinconia. E avesti comune con me il rammarico per le già lontane sere quando tu salivi alla mia cella remota e quivi, nella gran quiete conventuale, mentre fumigava entro le tazze la bevanda favorita e parevami si spandesse nell'aria il calore delle nostre intelligenze, io ti leggeva ad alta voce la mia scrittura recente. Era dolce per me quella tregua, e molto aspettata, dopo l'acerba lotta diurna. Il soprano gaudio cui possa oggi aspirare un artefice altero non sta forse nel rivelar l'opera ancor vergine e segreta a colui che è il suo pari, a colui che comprende tutto?

Avevamo più volte insieme ragionato d'un ideal libro di prosa moderno che - essendo vario di suoni e di ritmi come un poema, riunendo nel suo stile le più diverse virtù della parola scritta - armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero; alternasse le precisioni della scienza alle seduzioni del sogno; sembrasse non imitare ma continuare la Natura; libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sé creata con tutti i mezzi dell'arte letteraria la particolar vita - sensuale sentimentale intellettuale - di un essere umano collocato nel centro della vita universa.

Tu ritroverai il riflesso di quella idea (ahimè, troppo pallido forse!) in questa opera quando vorrai considerarla tutta quanta nella sua interezza.

Qui è una sola unica dramatis persona, ed è rappresentata qui - con tutte le potenze dello strumento d'arte concessomi - la sua particolar visione dell'universo; o meglio: perocché l'uomo sia, secondo il verbo del tuo divino parente Leonardo, «modello dello mondo»: è qui rappresentato il suo universo. Il gioco delle azioni e delle reazioni tra la sua sensibilità singola e le cose esteriori è stabilito su una trama precisa di osservazioni dirette. I suoi sentimenti, le sue idee, i suoi gusti, le sue abitudini non variano secondo le vicende di una qualunque avventura svolta di pagina in pagina con l'aiuto di una logica più o meno severa; ma presentano il principal carattere d'ogni vita organica, consistente in un equilibrio definito tra ciò che è variabile e ciò che è stabile, tra le forme costanti e le forme avventizie fugaci illogiche. Una sensazione, un sentimento e un'idea iniziali, apparsi nelle prime pagine, si vanno sviluppando - secondo le leggi che governano i fenomeni - a traverso una selva innumerevole di segni varii che tutti corrispondono in una stessa anima comprensiva e perspicua. Dalla vana acredine di parole esalata sul sedile del Pincio alla feroce lotta notturna sul margine del precipizio, la persona sente pensa e si commuove in un continuo succedersi di stati della sua conscienza sempre vigile. Non v'è qui, in somma, la continuità di una favola bene composta ma v'è la continuità di una esistenza individua manifestantesi nel suo triplice modo per un limitato periodo di tempo.

V'è sopra tutto - se bene io sembro forse ambire che lo sforzo da me tentato, per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità, abbia un valore trascendente quello della pura rappresentazione estetica - v'è, sopra tutto, il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca d'imagini e di musiche.

Concorrere efficacemente a constituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace.

La massima parte dei nostri narratori e descrittori non adopera ai suoi bisogni se non poche centinaia di parole comuni, ignorando completamente la più viva e più schietta ricchezza del nostro idioma che qualcuno anche osa accusare di povertà e quasi di goffaggine. Il vocabolario adoperato dai più si compone di vocaboli incerti, inesatti, d'origine impura, trascoloriti, difformati dall'uso volgare che ha loro tolta o mutata la significazion primitiva costringendoli ad esprimere cose diverse e opposte. E questi vocaboli vengono coordinati in periodi quasi sempre eguali, mal connessi fra loro, privi d'ogni ritmo, che non hanno alcuna rispondenza col movimento ideale delle cose di cui vorrebbero dare un'imagine.

La nostra lingua, per contro, è la gioia e la forza dell'artefice laborioso che ne conosce e ne penetra e ne sviscera i tesori lentamente accumulati di secolo in secolo, smossi taluni e rinnovati di continuo, altri scoperti soltanto della prima scorza, altri per tutta la profondità occulti, pieni di meraviglie ancóra ignote che daranno l'ebrezza all'estremo esploratore.

Questa lingua, rampollata dal denso tronco latino con un rigoglio d'innumerevoli virgulti flessibili, non resiste mai ad alcuna volontà di chi abbia vigore e destrezza bastanti a piegarla e ad intesserla pur nelle ghirlande più agili e nei festoni più sinuosi.

Uscendo dalle figure, dico che la lingua italiana non ha nulla da invidiare e nulla da chiedere in prestito ad alcun'altra lingua europea non pur nella rappresentazione di tutto il moderno mondo esteriore ma in quella degli «stati d'animo» più complicati e più rari in cui analista si sia mai compiaciuto da che la scienza della psiche umana è in onore.

E gli psicologi appunto, poiché sembra che i nuovi romanzieri d'Italia inclinino a questa scienza, gli psicologi in ispecie hanno per esporre le loro introversioni un vocabolario d'una ricchezza incomparabile, atto a fermare in una pagina con precisione grafica le più tenui fuggevoli onde del sentimento, del pensiero e fin dell'incoercibile sogno. E, nel tempo medesimo, insieme con questi esattissimi segni, hanno elementi musicali così varii e così efficaci da poter gareggiare con la grande orchestra wagneriana nel suggerire ciò che soltanto la Musica può suggerire all'anima moderna.

Certo, in questi ultimi scrittori non può palesarsi alcuno dei caratteri che distinguono la tradizione novellistica paesana troppo remota e troppo discordante dallo stato presente della conscienza comune. Fra gli antichi novellatori di nostra lingua nessuno, rappresentando gli atti, fu mai curioso dei motivi. Presi negli intrichi delle tristi e liete avventure, essi tutti limitarono il loro officio a creare una vita schiettamente sensuale, lasciando agli uomini di chiostro l'officio di compor trattati su la natura dell'anima.

Se dunque i nuovi psicologi vogliono riallacciarsi ai padri, debbono ricercare gli asceti, i casuisti, i volgarizzatori di sermoni, di omelìe e di soliloquii; debbono comunicare col Frate da Scarperìa, con Bono Giamboni, con Caterina da Siena, con Giordano da Ripalta, col Cavalca, col Passavanti; debbono studiosamente mirarsi negli Specchi di Croce e pensosamente errare nei Giardini di Consolazione e alternare pazientemente la compagnia di Origene con quella di San Bernardo.

Né per trovar esempii di bella prosa musicale debbono essi escire dai buoni secoli. I nostri più grandi artefici della parola ereditarono dall'eloquenza latina lo studio del ritmo. In Roma la musica verbale fu parlata e scritta; prima si dilatò aerea dai rostri, poi si fermò per segni nei libri. Come Marco Tullio Cicerone modulava con bocca quasi canora i suoi periodi per produrre nell'intimo degli ascoltanti un moto veemente, - così Tito Livio nelle Decadi gareggiava di numeri con i poeti per amplificar la grandezza dell'anima romana nei fatti dal suo stile espressi. Entrambi sapevano che le sillabe, oltre il significato ideale, hanno una virtù suggestiva e commotiva ne' loro suoni composti.

Principe nella lingua nuova, il Boccaccio non ignorò e non trascurò questo mistero. Egli intese talvolta un assai dotto orecchio a variar le cadenze delle sue frasi abondevoli, per meglio esprimere la lenta lusinga feminile e la dolcezza degli amorosi errori. Nella voce limpida e volubile del Firenzuola fluiva talvolta la melodia dei ruscelli dechinanti per i colli sereni al Bisenzio. E certo Annibal Caro, prima di vergar sul foglio i segni, ascoltò dentro di sé le elette parole risonare a lungo come nella segreta caverna e nel golfo lunato ove mescevano ingenue lascivie i suoi due pastori.

Tu ritroverai dunque, o Cenobiarca, in questa prosa che ti ho scritta, qualche precisa imagine e qualche nobile ritmo. Durante un lustro io ho portata in me questa prosa per arricchirla e per addensarla. Come negli antichi Trionfi della Morte il pittore adunava le fuggitive grazie della Vita, così in questo Trionfo io più volte

 

le feste ho celebrato

de' suoni, de' colori e de le forme.

 

Io ho circonfuso di luce, di musica e di profumo le tristezze e le inquietudini del morituro; ho evocato intorno alla sua agonia le più maliose Apparenze; ho disteso un tappeto variopinto sotto i suoi passi obliqui. Dinanzi a colui che perisce, una bella donna voluttuaria, terribilis ut castrorum acies ordinata, alta su un mistero di grandi acque glauche sparse di vele rosse, morde e assapora con lentezza la polpa d'un frutto maturo mentre dagli angoli della bocca vorace le cola giù pel mento il succo simile a un miele liquido.

E ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l'antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami. Qui sono le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Sente talvolta il morituro passar nell'aria il soffio della primavera sacra; e, aspirando alla Forza, invocando un Intercessore per la Vita, ripensa la colonia votiva composta di fresca gioventù guerriera che un toro prodigioso, di singolar bellezza, condusse all'Adriatico lontano. Ma, come si spensero entro le mura ciclopiche di Alba de' Marsi il re numida Siface e l'ultimo dei re macedoni Perseo crudele, il tragico erede di Demetrio Aurispa si spegne qui ne' suoi brandelli di porpora straniero ed esule e prigione. Pace a lui nell'ombra della Montagna, ultimamente!

Noi tendiamo l'orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca; e prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento del Uebermensch, del Superuomo.

 

G. d'A.


Dal Convento di S. M. Maggiore,

nel calen d'aprile del 1894.

Libro primo

Il passato

I.

Ippolita, quando vide contro il parapetto un gruppo di uomini chini a guardare nella strada sottoposta, esclamò soffermandosi:

- Che sarà accaduto?

Ella ebbe un piccolo moto di timore; e appoggiò involontariamente la mano sul braccio di Giorgio come per trattenerlo.

Giorgio disse, osservando i gesti di quegli uomini:

- Si sarà gettato giù qualcuno.

Soggiunse:

- Vuoi che torniamo indietro?

Ella esitò un poco, tra la curiosità e il raccapriccio. Rispose:

- No; seguitiamo.

Seguitarono pel viale estremo, lungo il parapetto. Involontariamente Ippolita accelerava il suo passo verso il gruppo dei curiosi.

In quel pomeriggio di marzo il Pincio era quasi deserto. Nell'aria grigia e sorda morivano i romori rari.

- È così - disse Giorgio. - Qualcuno s'è ucciso.

Ambedue si soffermarono, in vicinanza del gruppo. Tutti quegli uomini guardavano con occhi intentissimi il lastrico sottostante. Erano plebei oziosi. I loro volti diversi non esprimevano alcuna pietà e alcuna tristezza; l'immobilità dello sguardo metteva ne' loro occhi una specie di stupefazione bestiale.

Un giovinastro sopraggiunse, avido di vedere.

- Non c'è più - gli fece un tale, prima che colui si sporgesse; ed aveva nella voce un indefinibile accento tra di scherno e di giubilo, come rallegrandosi che lo spettacolo non potesse più da altri esser goduto. - Non c'è più. L'hanno già portato via.

- Dove?

- A Santa Maria del Popolo.

- Morto?

- Morto.

Un altro, un uomo scarno e verdiccio che portava intorno al collo una larga sciarpa di lana, si sporse molto; e, togliendosi di bocca la pipa, domandò ad alta voce:

- Che c'è rimasto?

La sua bocca era tòrta da un lato, rappresa come per una bruciatura, convulsa come se assaporasse una saliva amara di continuo rigurgitante; e la sua voce era profonda, come se uscisse da luoghi cavernosi.

- Che c'è rimasto?

Un carrettiere, giù nella strada, si chinava a piè della muraglia. I riguardanti tacquero, immobili, aspettando la risposta. Scorgevano soltanto, su le pietre, una chiazza nerastra.

- Poco sangue - rispose il carrettiere, ancóra curvo, cercando qualche cosa nella chiazza con la punta di una canna.

- E poi? - chiese di nuovo l'uomo della pipa. Il carrettiere si sollevò, tenendo in cima della canna qualche cosa che quei di sopra non vedevano.

- Capelli.

- Di che colore?

- Biondi.

Le voci, nel precipizio chiuso fra le due alte muraglie, avevano un rimbombo singolare.

- Giorgio, andiamo! - supplicò Ippolita, turbata, un poco pallida, scotendo l'amante che si sporgeva dal parapetto, in vicinanza del gruppo, attratto dall'atrocità della scena.

Oltrepassarono il luogo tragico, in silenzio. In ambedue persisteva il pensiero di quella morte, dolorosamente; e la loro tristezza era visibile.

Egli disse:

- Beati i morti perché non dubitano più.

Ed ella:

- È vero.

Uno scoramento infinito rendeva stanche le loro parole. Ella soggiunse, abbassando il capo, con un misto di amarezza e di compianto:

- Povero amore!

- Quale amore? - le chiese Giorgio, assorto.

- Il nostro.

- Tu lo senti dunque finire?

- Non in me.

- In me forse?

Una irritazione mal repressa inaspriva la voce di lui. Egli ripetè, guardandola:

- In me? Rispondi.

Ella tacque, riabbassando il capo.

- Non rispondi? Ah, tu sai bene che non diresti il vero.

Poi, dopo un intervallo in cui ambedue provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima, egli seguitò:

- Incomincia così l'agonia. Tu non te ne accorgi ancóra; ma io, da che tu sei tornata, ti guardo continuamente ed ogni giorno sorprendo in te un segno nuovo…

- Che segno?

- Un cattivo segno, Ippolita… Orribile cosa amare ed avere questa lucidità in tutti gli istanti eguale!

La donna scosse il capo, con un atto quasi violento; e si oscurò. Ancóra una volta, come tante altre volte, i due amanti divennero l'uno contro l'altra ostili. Ciascuno dei due si sentiva ferire dall'ingiustizia del sospetto e si ribellava, interiormente, con una collera sorda; ch'erompeva talora in parole crude e irreparabili, in accuse gravi, in recriminazioni enormi. Una invincibile smania li assaliva, di torturarsi a vicenda, di pungersi, di martoriarsi il cuore.

Ippolita si oscurò e si chiuse, corrugando i sopraccigli, serrando la bocca, mentre Giorgio la guardava con un sorriso irritante.

- Incomincia così - egli riprese persistendo in quel sorriso acerbo, in quello sguardo acuto. - Tu provi in fondo all'anima una inquietudine, una specie d'impazienza vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicina, tu senti che qualche cosa in fondo all'anima ti si leva contro di me, quasi una ripugnanza istintiva, che tu non sai soffocare. E divieni taciturna; e devi fare uno sforzo immane per dirmi una parola; e intendi male quel ch'io ti dico; e involontariamente, anche in una risposta insignificante, la tua voce è dura.

Ella non l'interruppe neppur con un gesto. Ferito da quel silenzio egli seguitò; e lo spingeva non soltanto la smania acre di tormentare la sua compagna, ma anche un certo gusto disinteressato delle investigazioni reso più acuto e più letterario dalla cultura. Egli, infatti, cercava di mettere nelle sue parole la sicurezza e l'esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli analisti; ma come nei soliloquii la sua considerazione mentale formulata esagerava ed alterava lo stato interno a cui si riferiva, così nei colloquii spesso la preoccupazione della perspicacia oscurava la sincerità del suo sentimento e lo traeva in errore su i moti intimi altrui ch'egli voleva scoprire. 11 suo cervello, ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva tutto, fuori e dentro. Egli dava al suo spirito attitudini arteficiose e irreparabili.

Seguitò:

- Bada; io non ti rimprovero. Tu non hai colpa. Ciascuna anima umana contiene in sé una data quantità di forza sensitiva da spendere in un amore. Necessariamente quella quantità si consuma nel tempo come ogni altra cosa. Quando è esaurita, nessuno sforzo vale ad impedire che l'amore finisca. E tu mi ami già da molto tempo; da quasi due anni! Il due di aprile cade il secondo anniversario. Ci hai pensato?

Ella scosse la testa. Egli ripetè, come a sé medesimo:

- Due anni!

Camminarono verso un sedile, e sedettero. Nel piegarsi, Ippolita aveva un'aria di grave stanchezza, quasi di abbattimento. Una pesante carrozza nera passò nel viale, facendo stridere la ghiaia; dalla via Flaminia giunse fioco lo squillo d'una cornetta; il silenzio rioccupò i dintorni arborati; gocce di pioggia, rare, cadevano.

- Sarà funebre questo secondo anniversario - riprese a dire Giorgio, implacabile contro la taciturna. - Eppure, bisognerà che noi lo celebriamo. Io ho il gusto delle cose amare.

Ippolita mostrò il suo dolore in un sorriso impreveduto. Poi disse, con impreveduta dolcezza:

- Perché tutte queste cattive parole?

E guardò Giorgio negli occhi, a lungo e a dentro. Ambedue, di nuovo, provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima. Ella sapeva bene da quale orribile male fosse compreso il suo amante; ella sapeva bene l'oscura causa di quell'acredine. Soggiunse, perché egli parlasse, perché egli esalasse la sua pena:

- Che hai?

Egli era rimasto come confuso da quell'accento di bontà, che non aspettava. Sentendosi da quell'accento indovinare e commiserare, egli sentì in sé crescere la pietà di sé medesimo; e una profonda commozione gli alterò tutto l'essere.

- Che hai? - ripeté Ippolita toccandogli una mano, quasi per aumentare sensualmente il potere della sua dolcezza.

- Che ho? - egli rispose. - Amo.

Le sue parole avevano perduto ogni punta. Mostrando la sua piaga immedicabile, egli s'impietosiva su sé medesimo. I vaghi rancori, che serpeggiavano in fondo al suo spirito contro la donna, parvero dileguarsi. Egli riconosceva ingiusto ogni risentimento contro di lei, riconoscendo un ordine superiore di necessità fatali. La sua miseria non proveniva da alcuna creatura umana, ma dall'essenza stessa della vita. Egli non doveva dolersi dell'amata ma dell'amore. L'amore, a cui per natura tutto il suo essere tendeva con invincibile veemenza, l'amore era la più grande fra le tristezze terrene. Ed egli era legato a quella suprema tristezza, forse fino alla morte.

Come egli taceva sopra pensiero, Ippolita gli domandò:

- Tu credi dunque, Giorgio, che io non ti ami?

- Ebbene, sì, guarda: io credo che tu mi ami - egli rispose. - Ma puoi tu provarmi che domani, che fra un mese, che fra un anno, che sempre sarai egualmente felice d'esser mia? Puoi tu provarmi che ora, in questo attimo, sei tutta mia? Che cosa posseggo io di te?

- Ogni cosa.

- Nulla, o quasi nulla. Io non posseggo quel ch'io vorrei possedere. Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a penetrarlo. Delle tue sensazioni, dei tuoi sentimenti, dei tuoi pensieri io non conosco se non una minima parte. La parola è un segno imperfetto. L'anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi l'anima. Anche nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due, separati, estranei, interiormente solitarii. Io bacio la tua fronte; e sotto la fronte si muove forse un pensiero che non è mio. Ti parlo; e forse una mia frase ti risveglia nello spirito un ricordo d'altri tempi, non del mio amore. Un uomo passa, un uomo ti guarda; e nel tuo spirito si produce un qualunque moto ch'io non posso sorprendere. E io non so quante volte un riflesso della tua vita anteriore illumini il momento presente… Oh, di quella vita, io ne ho una paura folle! - Sono accanto a te; mi sento tutto invaso dalla delizia che mi viene in certe ore dalla tua sola presenza; ti accarezzo, ti parlo, ti ascolto; mi abbandono. D'un tratto, un pensiero mi agghiaccia. Se io, inconsapevolmente, suscitassi in te una memoria, il fantasma d'una sensazione già provata, una malinconia dei più lontani giorni? Io non ti saprò mai dire la mia sofferenza. Quel calore, che mi dava il sentimento illusorio di non so qual comunione fra me e te, cade d'un tratto. Tu mi sfuggi, ti allontani, diventi inaccessibile. Io rimango solo, in una solitudine spaventevole. Dieci, venti mesi d'intimità non sono più nulla. Tu mi sembri estranea come quando non mi amavi. Ed io non ti accarezzo più, non parlo più; mi chiudo; evito qualunque manifestazione esteriore; ho paura che ogni minimo urto possa sollevare nel fondo del tuo spirito quei sedimenti oscuri che vi ha accumulati la vita irrevocabile. E allora cadono su noi quei lunghi silenzi angosciosi, in cui le forze del cuore si consumano inutilmente, miseramente. Io ti domando: «A che pensi?» Tu mi rispondi: «A che pensi?» Io non so il tuo pensiero; tu non sai il mio. Il distacco si fa sempre più profondo; diventa un abisso. E il guardare in quell'abisso è un'angoscia così forte che, per una specie d'istinto cieco, io mi getto sul tuo corpo, ti stringo, ti soffoco, impaziente di possederti. La voluttà è alta, come non mai. Ma quale voluttà può compensare l'immensa tristezza che sopraggiunge?

Ippolita disse:

- Io non provo questo. Io ho più abbandono. Forse, amo di più.

Di nuovo, questa affermazione di superiorità punse l'infermo.

Ippolita disse:

- Tu pensi troppo. Tu segui troppo il tuo pensiero. Il tuo pensiero ti attrae forse più che io non ti attragga, perché è sempre nuovo e sempre diverso; mentre io ho già perduta ogni novità. Nei primi tempi del tuo amore, tu eri meno pensoso e più spontaneo. Non avevi ancóra preso il gusto delle cose amare, perché eri più largo di baci che di parole. Già che, come tu dici, la parola è un segno imperfetto, non bisogna abusarne. Tu ne abusi, quasi sempre con crudeltà.

Poi, dopo un intervallo di silenzio, allettata ella stessa da una frase, non potendo resistere al desiderio di proferirla, soggiunse:

- L'anatomia presuppone il cadavere.

Come l'ebbe proferita, si pentì. La frase le parve volgarissima, poco feminina, acerba. Ella si rammaricò di non aver conservato quel tono di dolcezza e d'indulgenza, da cui dianzi Giorgio era rimasto confuso. Ancóra una volta ella mancava al proposito d'essere per l'amico una paziente e delicata medicatrice.

- Vedi, - ella disse, mostrando nella voce quel rammarico - tu mi guasti.

Egli appena sorrise. Ambedue sentivano che in quella disputa non avevano ferito se non l'amore.

La carrozza prelatizia ripassò, al piccolo trotto di due cavalli neri dalle code intonse. Gli alberi prendevano un'apparenza spettrale, come più l'aria s'illividiva nel tramonto umidiccio. Plumbee violacee le nuvole fumigavano, sul Palatino, sul Vaticano. Una striscia di luce gialla come solfo, diritta come una spada, rasentava il Monte Mario, dietro i cipressi aguzzi.

Giorgio pensava: «Mi ama ella ancóra? E perché è così irritabile? Sente ella forse che io dico la verità o ciò che sta per essere la verità? L'irritazione è un sintomo. Ma questa irritazione sorda e continua non è anche in fondo a me? Io so in me la causa vera. Sono geloso. Di che? Di tutto: - delle cose che si riflettono ne' suoi occhi… »

Egli la guardò. «È bellissima, oggi. È pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata. Quando ella si colorisce, mi pare un'altra. Quando ella ride non posso difendermi da un vago sentimento ostile, quasi d'ira contro il suo riso. Non però sempre.»

Il suo pensiero si perse nel pomeriggio. Notò fuggevolmente una segreta rispondenza tra l'aspetto della sera e l'aspetto dell'amata, godendone. Dal pallore di quel volto bruno traspariva come una leggera soffusione di viola sotto la pelle; ed ella aveva intorno al collo un piccolo nastro giallo, delicatissimo, che lasciava scoperti i due nèi bruni. «È molto bella. Il suo viso ha quasi sempre un'espressione profonda, significativa, appassionata. Qui sta il segreto del suo fascino. La sua bellezza non mi stanca mai; mi suggerisce sempre un sogno. Di che si compone la sua bellezza? Non saprei dire. Materialmente, non è bella. Qualche volta, guardandola, io ho provata la sorpresa penosa di una disillusione. I suoi lineamenti mi sono apparsi nella loro materiale verità, non modificati, non illuminati dalla forza di un'espressione spirituale. Ella ha però tre divini elementi di bellezza: la fronte, gli occhi, la bocca: divini.»

Gli si ripresentò al pensiero il riso. «Che mi raccontava ella, ieri? Mi raccontava non so più che cosa, di sua sorella: un piccolo fatto comico avvenuto in casa di sua sorella, a Milano, quando ella era là… Che ridere!… Ella dunque poteva ridere, lontana da me; poteva essere gaia. Ed ho le sue lettere. Tutte le sue lettere sono piene di tristezza, di pianto, di desiderio disperato.»

Egli provò un'acuta puntura, e poi una inquietudine tumultuosa come se fosse d'innanzi a un fatto grave ed irreparabile ma non bene chiarito. Avveniva in lui il consueto fenomeno della esagerazione sentimentale, per via d'imagini associate. Quell'innocente scoppio di risa si mutava in una ilarità continua, di tutti i giorni, di tutte l'ore, per tutto il periodo dell'assenza. Ippolita aveva vissuto lietamente, d'una vita volgare, tra gente ch'egli non conosceva, tra gli amici del cognato, tra ammiratori, tra gente stupida. Le sue lettere dolorose mentivano. Un brano d'una lettera gli tornò nella memoria, preciso. - Qui la vita è insopportabile. Amici ed amiche ci assediano; non ci lasciano in pace un'ora. Tu sai la cordialità milanese… - Una chiara visione gli sorse nello spirito: Ippolita in mezzo a una folla borghese d'impiegati, d'avvocati, di mercanti. Ella sorrideva a tutti, stendeva a tutti la mano, ascoltava i discorsi melensi, rispondeva una frase sciocca, si mescolava a quella volgarità.

In quel momento gli pesò sul cuore tutta la sofferenza provata in due anni al pensiero della vita che la sua amante conduceva, tra gente sconosciuta, nelle ore in cui ella non poteva restare con lui. «Che fa ella? Chi vede? Con chi parla? Quale atteggiamento ha verso quelle persone che ella conosce, con cui ella convive?» Eterne interrogazioni, senza risposta.

Il tormentato pensò: «Ognuna di quelle persone le toglie qualche cosa; toglie qualche cosa a me. Io non saprò mai quali influenze quelle persone abbiano esercitato su di lei; quali sentimenti, quali pensieri abbiano suscitato in lei. Ella è bella, piena di seduzioni; ha quel genere di bellezza che flagella gli uomini e li fa desiderosi. In mezzo a quella orribile folla, ella è stata desiderata. Il desiderio di un uomo trasparisce da uno sguardo, e lo sguardo è libero; e una donna è in balìa dello sguardo di chi la desidera. Che prova una donna, accorgendosi d'essere desiderata? Non rimane, certo, impassibile. Deve avvenire in lei un turbamento, un qualsiasi moto; e sia pure di ripugnanza, e sia pure di ribrezzo. Ora, ecco che un qualunque uomo può turbare la donna che mi ama. Qual sorta di possesso è dunque il mio?»

Egli soffriva forte, poiché le imagini fisiche illustravano il suo ragionamento interiore.

«Io amo Ippolita; con una passione che io crederei inestinguibile, se non sapessi che ogni amore umano deve avere una fine. Io l'amo e non imagino voluttà più alte di quelle che ho da lei. Pure, più d'una volta, vedendo passare una donna, io sono stato assalito da un desiderio repentino; più d'una volta, due occhi di donna, veduti in qualche luogo, fuggevolmente, mi hanno lasciato nell'anima non so che vago solco di malinconia. Più d'una volta, ho pensato d'una donna che passava, d'una donna incontrata in un salotto, dell'amante d'un mio amico: - Quale sarà la sua maniera di amare? Quale sarà il suo segreto voluttuoso? - E per qualche tempo quella donna ha incitata la mia imaginazione, senza troppa vivezza, ma con una insistenza lenta, a intervalli. Taluna di quelle imagini s'è anche presentata d'improvviso nel mio spirito, mentre io tenevo sotto le mie carezze Ippolita. Or bene, perché ella stessa non potrebbe essere sorpresa da un desiderio vedendo passare un uomo? Se io avessi il dono di guardarla nell'anima e la vedessi attraversata da uno di quei desiderii, sia pure come da un lampo, certo io crederei macchiata la mia amante d'una macchia indelebile e crederei morire di dolore. Io non potrò mai avere questa prova materiale, perché natura vuole che l'anima della mia amante sia invisibile e impalpabile, pur essendo assai più del corpo esposta alle violazioni. Ma le analogie m'illuminano. La possibilità non è dubbia. Forse, in questo istante medesimo, ella guarda dentro di sé una macchia recente e la vede, sotto il suo sguardo, dilatarsi.»

Egli ebbe un gran sussulto, all'urto del dolore. Ippolita gli chiese, con voce dolce:

- Che hai? A che pensavi?

Egli rispose:

- A te.

- Come?

- Male.

Ippolita sospirò. Poi chiese:

- Vuoi che andiamo?

Egli rispose:

- Andiamo.

Si levarono. Si rimisero per la via che avevano dianzi percorsa. Ippolita disse, piano, con le lacrime nella voce:

- Che sera triste, amor mio!

Si soffermò, come per raccogliere e per assaporare la tristezza sparsa nel giorno morente. Il Pincio, intorno, era deserto ormai, silenzioso, pieno d'un'ombra violetta in cui le erme biancheggiavano come sepolcri. La città sottoposta si copriva di ceneri. Gocce di pioggia, rare, cadevano.

- Dove andrai stasera? - chiese ella. - Che farai?

Egli rispose, desolato:

- Io non so che farò.

Mentre soffrivano stando l'uno presso l'altra, pensavano con terrore a una nota e ben più dura sofferenza che li aspettava. Essi sapevano quale orribile strazio le imaginazioni notturne avrebbero fatto delle loro anime senza difesa.

- Se tu vuoi, vengo da te, questa notte - disse Ippolita, timidamente.

L'amante, che si sentiva dentro divorare da un sordo rancore ed incitare come da una smania d'esser cattivo, di vendicarsi, rispose:

- No.

Ma il cuore gli oppose: «Tu non potrai rimaner lontano da lei, questa notte; non potrai, non potrai.» E, in mezzo alle cieche incitazioni ostili, sentendo questa impossibilità, avendo chiara conscienza di questa assoluta impossibilità, egli provò una specie di brivido interno, uno strano brivido come di esaltante fierezza, in conspetto della grande passione da cui era posseduto. Ripeté a sé medesimo: «Io non potrò rimanere lontano da lei, questa notte; non potrò.» Ebbe il sentimento oscuro d'una forza estranea che lo dominava. Un soffio tragico gli passò su lo spirito.

- Giorgio! - esclamò Ippolita stringendogli il braccio, un poco sbigottita.

Egli trasalì. Riconobbe il luogo dove prima s'erano fermati a guardare nel lastrico sottoposto la macchia di sangue lasciata dal suicida; domandò:

- Hai paura?

Ella rispose tenendogli ancóra il braccio:

- Un poco.

Egli si staccò da lei, si avvicinò al parapetto e si sporse. L'ombra già occupava il fondo della strada; dove egli credette scorgere la macchia nerastra, perché ne aveva ancora fresca l'imagine nella memoria. Le suggestioni della sera crearono vagamente un fantasma del corpo morto: una forma indecisa di giovane, con un capo biondo, sanguinoso. «Chi era colui? Perché si è ucciso?» Vide sé stesso in quella forma, spento. Alcuni pensieri, rapidissimi, senza legame, gli attraversarono il cervello. Rivide come nella luce d'un baleno il suo povero zio Demetrio, il minor fratello di suo padre, il consanguineo suicida: - una faccia nascosta da un velo nero, sul guanciale bianco; una mano lunga, pallida, ma piena d'una espressione virile; su la parete una piccola pila d'argento, per l'acqua santa, sospesa a tre catenelle, che si moveva al vento di tratto in tratto con un tintinno. «Se io mi gettassi? Un semplice salto in avanti; e la caduta, celere. Si smarrisce la conoscenza, a traverso lo spazio?» Egli imaginò fisicamente l'urto del corpo contro la pietra; e rabbrividì. Poi per tutto il corpo provò come una ripulsione forte, angosciosa e mista d'una strana dolcezza. L'imaginazione gli rappresentò la delizia della prossima notte: - l'addormentarsi a poco a poco nel languore; il risvegliarsi con una piena di tenerezza misteriosamente accumulata nel sonno. Imagini e pensieri si succedevano in lui con una straordinaria rapidità.

Come si rivolse, incontrò gli occhi di Ippolita fissi su di lui, grandi, smisurati; e gli parve di leggere quel che esprimevano. Le si avvicinò; mise il suo braccio sotto il braccio di lei, con un gesto affettuoso ch'eragli familiare. Ed ella se lo strinse forte contro il fianco. Ambedue provavano un bisogno improvviso di stringersi, di mescolarsi, perdutamente.

- Si chiude! Si chiude!

Il grido dei guardiani risonò nel silenzio, sotto gli alberi.

- Si chiude!

Dopo il grido, il silenzio pareva più lugubre; e quelle due parole, urlate a squarciagola da uomini invisibili, davano ai due amanti un urto fastidioso. Per mostrare che avevano udito e che si disponevano ad uscire, essi affrettarono il passo. Ma ostinate le voci, di qua, di là, per i viali deserti ripetevano:

- Si chiude!

- Maledizione! - esclamò Ippolita con un gesto d'impazienza, esasperata, affrettando ancóra il passo.

La campana della Trinità de' Monti sonò l'Angelus. Roma apparve come una immensa nuvola grigia, informe, che radesse il suolo. Qualche finestra, nelle case prossime sottostanti, già rosseggiava, dilatata dalla caligine. Gocce di pioggia, rare, cadevano.

- Tu verrai da me, questa notte; è vero? - chiese Giorgio.

- Sì, sì; verrò.

- Verrai presto?

- Verrò alle undici.

- Se tu non venissi, io morirei.

- Verrò.

Si guardarono negli occhi; si scambiarono una promessa inebriante.

Egli chiese, vinto dalla tenerezza:

- Mi perdonerai?

Di nuovo si guardarono, con uno sguardo infinitamente lusinghevole.

Egli disse, piano:

- Adorata!

Ella disse:

- Addio. Fino alle undici, pensami.

- Addio.

Erano in fondo alla via Gregoriana. Si separarono. Ella discese per la via di Capo Le Case. Egli la guardò allontanarsi giù pel marciapiede bagnato che riluceva al riflesso delle vetrine. «Ecco, ella mi lascia. Rientra in una casa a me ignota, rientra nella sua vita volgare, si spoglia dell'idealità di cui la vesto; diventa un'altra donna, una donna comune. Io non so più nulla di lei. Le brutte necessità della vita la prendono, la occupano, la umiliano… » Dalla bottega di un fioraio gli venne sul viso un profumo di violette. Il cuore gli si gonfiò di aspirazioni confuse. «Ah, perché dunque non potremmo noi rendere la nostra esistenza conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi soli?»

II.

Giorgio dormiva, verso le dieci della mattina, uno di quei profondi sonni ristoratori che nella giovinezza seguono una notte di voluttà; quando il domestico venne a svegliarlo.

Egli gridò, di pessimo umore, rivoltandosi nel letto:

- Non sono in casa per nessuno. Lasciatemi.

Ma udì la voce dell'importuno, che dalla camera attigua pregava:

- Perdona, Giorgio, se ho insistito. Ho bisogno urgente di parlarti.

Riconobbe la voce di Alfonso Exili, e il suo fastidio crebbe.

Questo Exili era un antico suo compagno di collegio, un giovine di mediocre intelligenza, rovinatosi al giuoco e alla crapula, diventato una specie di avventuriere alla caccia del soldo. Costui poteva sembrare ancóra un bel giovine, sebbene la sua faccia fosse devastata dal vizio; ma aveva nella sua persona e ne' suoi modi quel non so che di furbesco e d'ignobile che acquistano gli uomini costretti a vivere di espedienti e di umiliazioni.

Entrò, aspettò che il domestico fosse uscito, assunse un'aria un po' sconvolta; e disse, mangiandosi a mezzo le parole:

- Scusa, Giorgio, se ricorro a te anche questa volta. Ho da pagare un debito di giuoco. Aiutami. Si tratta d'una piccola somma: trecento lire. Scusa, Giorgio.

- Ah, tu dunque paghi i tuoi debiti di giuoco? - gli chiese Giorgio infliggendogli con perfetta incuranza l'ingiuria; perché, non avendo egli saputo rompere ogni rapporto con quel glutinoso scroccatore, adoperava contro di lui il disprezzo come altri adopera un bastone per preservarsi dal contatto di un animale immondo. - Mi fai stupire.

L'Exili sorrise.

- Via, non essere cattivo! - pregò, con una voce supplichevole, come una femmina. - Me le dai, queste trecento lire? Su la mia parola d'onore, domani te le rendo.

Giorgio scoppiò a ridere. Sonò il campanello, per chiamare il domestico. Venne il domestico.

- Cercate il mazzo delle piccole chiavi, là, in quegli abiti che sono sul divano.

Il domestico trovò le chiavi.

- Aprite, là, il secondo tiretto. Datemi il portafoglio grande.

Il domestico gli diede il portafoglio.

- Andate.

Come il domestico uscì, l'Exili disse, con un sorriso fra timido e convulso:

- Non potresti darmene quattrocento?

- No. Tieni. Sieno le ultime. Vattene.

Giorgio non gli porse il denaro, ma lo posò su la sponda del letto. L'Exili sorrise, prendendolo, mettendoselo in tasca. Poi, con un tono ambiguo tra di adulazione e d'ironia, disse:

- Tu hai un cuore nobile.

Si guardò intorno.

- Tu hai anche una deliziosa camera da letto.

Si sedé sopra un divano; si versò un bicchierino di liquore; si riempì di sigari un astuccio.

- Chi è ora la tua amante? Non è più quella dell'anno scorso; è vero?

- Vattene, Exili. Voglio dormire.

- Che splendida creatura, quella! I più belli occhi di Roma… È ancóra qui? Da qualche tempo non l'incontro. Dev'essere andata fuori. Ha una sorella a Milano, mi pare.

Egli si versò un altro bicchierino e lo bevve d'un fiato. Ciarlava forse appunto per avere il tempo di vuotare la boccia.

- È divisa dal marito; è vero? Credo che si debba trovar male, in finanze. Ma veste sempre bene. L'incontrai, circa due mesi fa, pel Babuino. Sai chi sarà forse il tuo successore? Quel Monti… Tu non lo devi conoscere: un mercante di campagna, un giovine alto, grosso, biondiccio. Quel giorno appunto la seguiva, pel Babuino. Tu sai: si vede sùbito, quando un uomo corre dietro a una donna… Quel Monti ha molti quattrini.

Pronunciò l'ultima parola con un indefinibile accento, misto d'invidia e d'ingordigia, odioso. Poi bevve per la terza volta, senza far rumore.

- Giorgio, dormi?

Giorgio non rispose, fingendo di dormire, sebbene avesse tutto ascoltato. Ma egli temeva che l'Exili udisse i battiti del cuore a traverso la coltre.

- Giorgio!

Egli finse di scuotersi da un dormiveglia.

- Come! Sei ancóra qui? Non te ne vai?

- Me ne vado - fece l'Exili, avvicinandosi al letto. - Guarda qua: una forcina di tartaruga!

Si chinò per raccoglierla, sul tappeto; la esaminò curiosamente; la posò su la coperta.

- Che uomo fortunato! - fece con quel suo tono ambiguo d'ironia e di adulazione. - Dunque a rivederci e grazie.

Tese la mano; ma Giorgio non mosse la sua di sotto la coltre. Il ciarlatore si rivolse alla porta.

- Tu hai un cognac squisito. Ne prendo un altro bicchierino.

Ribevve ed uscì, lasciando Giorgio nel letto ad assaporare il tossico.

III.

Il due di aprile cadeva il secondo anniversario.

- Bisogna questa volta celebrarlo fuori di Roma - disse Ippolita. - Bisogna che noi passiamo una gran settimana d'amore, soli, dovunque, ma fuori di qui.

Giorgio disse:

- Ti ricordi, l'anno scorso, il primo anniversario?

- Mi ricordo.

- Era di Pasqua, la Domenica di Pasqua…

- Io venni da te, la mattina, alle dieci…

- Tu avevi la piccola giacca inglese che mi piaceva tanto; avevi teco il libro delle preghiere…

- Non andai alla messa, quella mattina!…

- Avevi però tanta fretta…

- Ero quasi fuggita di casa. Tu sai: di festa, non mi lasciavano mai sola. Eppure, rimasi con te fino a mezzogiorno. E avevamo gente a colazione, quella mattina!…

- Dopo, in tutto il giorno, non ci vedemmo più! Fu un anniversario malinconico…

- È vero.

- E che sole!

- E tutti quei tuoi fiori, nella stanza…

- Ero uscito di casa io stesso, per tempo; avevo comprata l'intera piazza di Spagna…

- Mi gettasti addosso una quantità di rose sfogliate, mi mettesti tante foglie nel collo, dentro le maniche… Ti ricordi?

- Mi ricordo.

- Poi a casa, quando mi spogliai, le ritrovai tutte…

Ella sorrise.

- E mio marito, quando rientrai, scoperse una foglia sul mio cappellino, in una piega del merletto!

- Me lo dicesti.

- Non uscii più di casa, quel giorno; non volli più uscire. Ripensai, ripensai… Sì, fu un anniversario malinconico.

Poi, dopo un intervallo di silenzio pensoso:

- Credevi tu, in cuor tuo, che saremmo giunti al secondo?

- Io, no.

- Io, neppure.

Giorgio pensò: «Ecco l'amore, che ha in sé il presentimento della sua fine!» Pensò anche al ricordato marito, senza odio; anzi con una specie di benevolenza compassionevole. «Ella ora è libera. Ma perché io sono ora più inquieto che allora? Quel marito era per me come un'assicurazione. Mi pareva ch'egli custodisse la mia amante contro ogni pericolo. Forse m'illudo. Io soffrivo molto, anche allora. Ma la sofferenza passata par sempre men dura della presente.» Seguendo il suo pensiero, egli non ascoltava le parole d'Ippolita.

Ella diceva:

- Dunque, dove andremo? Bisogna decidere. Domani è il primo d'aprile. Io ho già detto a mia madre: «Sai, mamma; uno di questi giorni vado via.» La sto preparando. Le inventerò qualche favola credibile. Lascia fare.

Ella parlava lieta; sorrideva. Ed egli credè scoprire in quel sorriso, onde s'illustravano le ultime parole, la spontanea compiacenza che la donna prova nell'ordire un qualunque inganno. Gli spiacque la facilità con cui ella poteva ingannare la madre. Ripensò ancóra, con un senso di rimpianto, la vigilanza del marito. «Perché io soffro tanto, di questa sua libertà che pure è al servigio del mio piacere? Non so che darei per sottrarmi al mio pensiero fisso, al mio timore che la offende. Io l'amo e la offendo; l'amo e la credo capace di un'azione bassa!»

- Bisogna però - ella diceva - bisogna che non andiamo troppo lontano. Non conosci tu un luogo tranquillo, solitario, pieno di alberi, un poco strano? Tivoli, no; Frascati, no.

- Prendi il Baedeker, là sul tavolo; e cerca.

- Cerchiamo insieme.

Ella prese il libro rosso; si mise in ginocchio accanto alla poltrona dov'egli era seduto; e incominciò a sfogliare, con gesti graziati, d'una grazia infantile. Leggeva a quando a quando un brano a voce bassa.

Egli la guardava, attratto dalla finezza della nuca; d'onde si rialzavano verso la sommità della testa i capelli attorti come in una voluta, neri e lucidi. Guardava i due piccoli nei bruni, i gemelli, che stavano l'uno accanto all'altro sul collo pallido, vellutato, a cui davano una attrattiva di più. Notò ch'ella non portava orecchini. Da tre o quattro giorni non portava i soliti orecchini di zaffiro. «Li ha sacrificati forse a un'angustia familiare? Nella sua casa, ella è forse angustiata da dure necessità quotidiane.» Egli guardò in faccia il suo pensiero fisso, con una specie di violenza interiore. Era questo. «Quando sarà stanca di me (e sarà tra breve), ella cadrà nelle mani di qualcuno che le offrirà una esistenza facile, che la toglierà dalle strettezze domestiche, in cambio di piacere. Costui potrà anche essere il mercante di cui parlava l'Exili. Pel disgusto delle piccole miserie, ella vincerà il nuovo disgusto. Si adatterà. Forse anche non dovrà vincere alcuna ripugnanza, perché l'offerente le sarà gradito.»

Gli venne alla memoria l'amante di un amico, la contessa Albertini. Costei, divisa dal marito, rimasta libera in condizioni disgraziate, era discesa a poco a poco negli amori remunerativi salvando con garbo le apparenze. Un altro esempio gli venne alla memoria, avvalorando la possibilità temuta. E, d'innanzi alla chiara possibilità che emergeva dall'avvenire oscuro, egli provò un dolore ineffabile. - I suoi timori non dovevano aver tregua. Egli doveva, o prima o poi, veder cadere la creatura che aveva innalzato. Di simili degradazioni era piena la vita.

Ella diceva, quasi lamentandosi:

- Io qui non trovo nulla. Gubbio, Narni, Viterbo, Orvieto… Ecco qui la pianta di Orvieto: monastero di San Pietro, monastero di San Paolo, monastero del Gesù, monastero di San Bernardino, monastero di San Ludovico; convento di San Domenico, convento di San Francesco, convento dei Servi di Maria…

Ella leggeva con una specie di cantilena, come se recitasse una litania. D'un tratto, si mise a ridere, rovesciando il capo, offrendo la bella fronte alle labbra dell'amante. Era ella in uno di que' suoi momenti di bontà espansiva, che la facevano sembrare una fanciulla.

- Quanti monasteri! Quanti conventi! Deve essere un paese strano. Vuoi che andiamo a Orvieto?

Parve a Giorgio di ricevere sul cuore un'ondata improvvisa di freschezza. Egli si abbandonò, con riconoscenza, a quella consolazione. Come premeva le labbra su la fronte d'Ippolita, ivi colse il ricordo della deserta città guelfa che tace adorando il suo bel Duomo.

- Orvieto! Non ci sei mai stata? Figùrati, in cima a una roccia di tufo, sopra una valle malinconica, una città silenziosa tanto che pare disabitata: - finestre chiuse; vicoli grigi dove cresce l'erba; un cappuccino che attraversa una piazza; un vescovo che scende da una carrozza fermata d'innanzi a un ospedale, tutta nera, con un servo decrepito allo sportello; una torre in un cielo bianco, piovigginoso; un orologio che suona le ore lentamente; d'un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo.

Ippolita disse, un po' sognando, quasi avesse dentro gli occhi la visione della città silenziosa:

- Che pace!

- Io la vidi di febbraio, con un tempo come questo d'oggi, incerto: un po' di pioggia, un po' di sole. Ci rimasi un giorno; partii con tristezza; portai meco la nostalgia di quella pace… Oh che pace! Ero in compagnia di me stesso; pensavo: «Avere un'amante, o più tosto una sorella amante, che fosse piena di divozione; e venire qui, restare qui un lungo mese, il mese di aprile: un aprile un po' piovigginoso, cinerino, ma tiepido, con qualche sprazzo di sole. E passare molte ore dentro la cattedrale, d'innanzi, d'intorno; andare a cogliere le rose negli orti dei conventi; andare a prendere dalle monache le confetture; bere l'Est Est Est in una tazzetta etrusca; amare e dormire molto, in un letto soffice, tutto velato di bianco, verginale… »

Ippolita sorrise a quel sogno, felice. Ella disse, con un'aria di candore:

- Io sono divota. Conducimi a Orvieto!

Ella si raccolse tutta ai piedi dell'amato; gli prese le mani, invasa da una immensa dolcezza, pregustando già quella quiete, quell'ozio, quella malinconia.

- Parlamene ancóra.

Egli la baciò su la fronte, a lungo, con una commozione pura. Poi la guardò, a lungo.

- Hai la fronte tanto bella - disse, con un tremito leggero.

Vedeva ora Ippolita vivente corrispondere all'ideal figura di lei, ch'egli nutriva nel cuore. La vedeva buona, tenera, sommessa, respirante in una nobile e dolce poesia. Come nel motto ch'egli le aveva dato, ella era grave e soave: - gravis dum suavis.

- Parlami! - ella mormorò.

Dal balcone entrava una luce modesta. Di tratto in tratto i vetri mettevano un tintinno debole o le gocce della pioggia facevano un sordo crepitìo.