Ippolita, quando vide contro il parapetto
un gruppo di uomini chini a guardare nella strada sottoposta,
esclamò soffermandosi:
- Che sarà accaduto?
Ella ebbe un piccolo moto di timore; e
appoggiò involontariamente la mano sul braccio di Giorgio come per
trattenerlo.
Giorgio disse, osservando i gesti di
quegli uomini:
- Si sarà gettato giù qualcuno.
Soggiunse:
- Vuoi che torniamo indietro?
Ella esitò un poco, tra la curiosità e il
raccapriccio. Rispose:
- No; seguitiamo.
Seguitarono pel viale estremo, lungo il
parapetto. Involontariamente Ippolita accelerava il suo passo verso
il gruppo dei curiosi.
In quel pomeriggio di marzo il Pincio era
quasi deserto. Nell'aria grigia e sorda morivano i romori rari.
- È così - disse Giorgio. - Qualcuno s'è
ucciso.
Ambedue si soffermarono, in vicinanza del
gruppo. Tutti quegli uomini guardavano con occhi intentissimi il
lastrico sottostante. Erano plebei oziosi. I loro volti diversi non
esprimevano alcuna pietà e alcuna tristezza; l'immobilità dello
sguardo metteva ne' loro occhi una specie di stupefazione
bestiale.
Un giovinastro sopraggiunse, avido di
vedere.
- Non c'è più - gli fece un tale, prima
che colui si sporgesse; ed aveva nella voce un indefinibile accento
tra di scherno e di giubilo, come rallegrandosi che lo spettacolo
non potesse più da altri esser goduto. - Non c'è più. L'hanno già
portato via.
- Dove?
- A Santa Maria del Popolo.
- Morto?
- Morto.
Un altro, un uomo scarno e verdiccio che
portava intorno al collo una larga sciarpa di lana, si sporse
molto; e, togliendosi di bocca la pipa, domandò ad alta voce:
- Che c'è rimasto?
La sua bocca era tòrta da un lato,
rappresa come per una bruciatura, convulsa come se assaporasse una
saliva amara di continuo rigurgitante; e la sua voce era profonda,
come se uscisse da luoghi cavernosi.
- Che c'è rimasto?
Un carrettiere, giù nella strada, si
chinava a piè della muraglia. I riguardanti tacquero, immobili,
aspettando la risposta. Scorgevano soltanto, su le pietre, una
chiazza nerastra.
- Poco sangue - rispose il carrettiere,
ancóra curvo, cercando qualche cosa nella chiazza con la punta di
una canna.
- E poi? - chiese di nuovo l'uomo della
pipa. Il carrettiere si sollevò, tenendo in cima della canna
qualche cosa che quei di sopra non vedevano.
- Capelli.
- Di che colore?
- Biondi.
Le voci, nel precipizio chiuso fra le due
alte muraglie, avevano un rimbombo singolare.
- Giorgio, andiamo! - supplicò Ippolita,
turbata, un poco pallida, scotendo l'amante che si sporgeva dal
parapetto, in vicinanza del gruppo, attratto dall'atrocità della
scena.
Oltrepassarono il luogo tragico, in
silenzio. In ambedue persisteva il pensiero di quella morte,
dolorosamente; e la loro tristezza era visibile.
Egli disse:
- Beati i morti perché non dubitano
più.
Ed ella:
- È vero.
Uno scoramento infinito rendeva stanche le
loro parole. Ella soggiunse, abbassando il capo, con un misto di
amarezza e di compianto:
- Povero amore!
- Quale amore? - le chiese Giorgio,
assorto.
- Il nostro.
- Tu lo senti dunque finire?
- Non in me.
- In me forse?
Una irritazione mal repressa inaspriva la
voce di lui. Egli ripetè, guardandola:
- In me? Rispondi.
Ella tacque, riabbassando il capo.
- Non rispondi? Ah, tu sai bene che non
diresti il vero.
Poi, dopo un intervallo in cui ambedue
provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima, egli
seguitò:
- Incomincia così l'agonia. Tu non te ne
accorgi ancóra; ma io, da che tu sei tornata, ti guardo
continuamente ed ogni giorno sorprendo in te un segno nuovo…
- Che segno?
- Un cattivo segno, Ippolita… Orribile
cosa amare ed avere questa lucidità in tutti gli istanti
eguale!
La donna scosse il capo, con un atto quasi
violento; e si oscurò. Ancóra una volta, come tante altre volte, i
due amanti divennero l'uno contro l'altra ostili. Ciascuno dei due
si sentiva ferire dall'ingiustizia del sospetto e si ribellava,
interiormente, con una collera sorda; ch'erompeva talora in parole
crude e irreparabili, in accuse gravi, in recriminazioni enormi.
Una invincibile smania li assaliva, di torturarsi a vicenda, di
pungersi, di martoriarsi il cuore.
Ippolita si oscurò e si chiuse, corrugando
i sopraccigli, serrando la bocca, mentre Giorgio la guardava con un
sorriso irritante.
- Incomincia così - egli riprese
persistendo in quel sorriso acerbo, in quello sguardo acuto. - Tu
provi in fondo all'anima una inquietudine, una specie d'impazienza
vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicina, tu senti che
qualche cosa in fondo all'anima ti si leva contro di me, quasi una
ripugnanza istintiva, che tu non sai soffocare. E divieni
taciturna; e devi fare uno sforzo immane per dirmi una parola; e
intendi male quel ch'io ti dico; e involontariamente, anche in una
risposta insignificante, la tua voce è dura.
Ella non l'interruppe neppur con un gesto.
Ferito da quel silenzio egli seguitò; e lo spingeva non soltanto la
smania acre di tormentare la sua compagna, ma anche un certo gusto
disinteressato delle investigazioni reso più acuto e più letterario
dalla cultura. Egli, infatti, cercava di mettere nelle sue parole
la sicurezza e l'esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli
analisti; ma come nei soliloquii la sua considerazione mentale
formulata esagerava ed alterava lo stato interno a cui si riferiva,
così nei colloquii spesso la preoccupazione della perspicacia
oscurava la sincerità del suo sentimento e lo traeva in errore su i
moti intimi altrui ch'egli voleva scoprire. 11 suo cervello,
ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e
apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva tutto,
fuori e dentro. Egli dava al suo spirito attitudini arteficiose e
irreparabili.
Seguitò:
- Bada; io non ti rimprovero. Tu non hai
colpa. Ciascuna anima umana contiene in sé una data quantità di
forza sensitiva da spendere in un amore. Necessariamente quella
quantità si consuma nel tempo come ogni altra cosa. Quando è
esaurita, nessuno sforzo vale ad impedire che l'amore finisca. E tu
mi ami già da molto tempo; da quasi due anni! Il due di aprile cade
il secondo anniversario. Ci hai pensato?
Ella scosse la testa. Egli ripetè, come a
sé medesimo:
- Due anni!
Camminarono verso un sedile, e sedettero.
Nel piegarsi, Ippolita aveva un'aria di grave stanchezza, quasi di
abbattimento. Una pesante carrozza nera passò nel viale, facendo
stridere la ghiaia; dalla via Flaminia giunse fioco lo squillo
d'una cornetta; il silenzio rioccupò i dintorni arborati; gocce di
pioggia, rare, cadevano.
- Sarà funebre questo secondo anniversario
- riprese a dire Giorgio, implacabile contro la taciturna. -
Eppure, bisognerà che noi lo celebriamo. Io ho il gusto delle cose
amare.
Ippolita mostrò il suo dolore in un
sorriso impreveduto. Poi disse, con impreveduta dolcezza:
- Perché tutte queste cattive parole?
E guardò Giorgio negli occhi, a lungo e a
dentro. Ambedue, di nuovo, provarono un'ansietà inesprimibile di
leggersi nell'anima. Ella sapeva bene da quale orribile male fosse
compreso il suo amante; ella sapeva bene l'oscura causa di
quell'acredine. Soggiunse, perché egli parlasse, perché egli
esalasse la sua pena:
- Che hai?
Egli era rimasto come confuso da
quell'accento di bontà, che non aspettava. Sentendosi da
quell'accento indovinare e commiserare, egli sentì in sé crescere
la pietà di sé medesimo; e una profonda commozione gli alterò tutto
l'essere.
- Che hai? - ripeté Ippolita toccandogli
una mano, quasi per aumentare sensualmente il potere della sua
dolcezza.
- Che ho? - egli rispose. - Amo.
Le sue parole avevano perduto ogni punta.
Mostrando la sua piaga immedicabile, egli s'impietosiva su sé
medesimo. I vaghi rancori, che serpeggiavano in fondo al suo
spirito contro la donna, parvero dileguarsi. Egli riconosceva
ingiusto ogni risentimento contro di lei, riconoscendo un ordine
superiore di necessità fatali. La sua miseria non proveniva da
alcuna creatura umana, ma dall'essenza stessa della vita. Egli non
doveva dolersi dell'amata ma dell'amore. L'amore, a cui per natura
tutto il suo essere tendeva con invincibile veemenza, l'amore era
la più grande fra le tristezze terrene. Ed egli era legato a quella
suprema tristezza, forse fino alla morte.
Come egli taceva sopra pensiero, Ippolita
gli domandò:
- Tu credi dunque, Giorgio, che io non ti
ami?
- Ebbene, sì, guarda: io credo che tu mi
ami - egli rispose. - Ma puoi tu provarmi che domani, che fra un
mese, che fra un anno, che sempre sarai egualmente felice d'esser
mia? Puoi tu provarmi che ora, in questo attimo, sei tutta mia? Che
cosa posseggo io di te?
- Ogni cosa.
- Nulla, o quasi nulla. Io non posseggo
quel ch'io vorrei possedere. Tu mi sei ignota. Come qualunque altra
creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me
impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a
penetrarlo. Delle tue sensazioni, dei tuoi sentimenti, dei tuoi
pensieri io non conosco se non una minima parte. La parola è un
segno imperfetto. L'anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi
l'anima. Anche nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due,
separati, estranei, interiormente solitarii. Io bacio la tua
fronte; e sotto la fronte si muove forse un pensiero che non è mio.
Ti parlo; e forse una mia frase ti risveglia nello spirito un
ricordo d'altri tempi, non del mio amore. Un uomo passa, un uomo ti
guarda; e nel tuo spirito si produce un qualunque moto ch'io non
posso sorprendere. E io non so quante volte un riflesso della tua
vita anteriore illumini il momento presente… Oh, di quella vita, io
ne ho una paura folle! - Sono accanto a te; mi sento tutto invaso
dalla delizia che mi viene in certe ore dalla tua sola presenza; ti
accarezzo, ti parlo, ti ascolto; mi abbandono. D'un tratto, un
pensiero mi agghiaccia. Se io, inconsapevolmente, suscitassi in te
una memoria, il fantasma d'una sensazione già provata, una
malinconia dei più lontani giorni? Io non ti saprò mai dire la mia
sofferenza. Quel calore, che mi dava il sentimento illusorio di non
so qual comunione fra me e te, cade d'un tratto. Tu mi sfuggi, ti
allontani, diventi inaccessibile. Io rimango solo, in una
solitudine spaventevole. Dieci, venti mesi d'intimità non sono più
nulla. Tu mi sembri estranea come quando non mi amavi. Ed io non ti
accarezzo più, non parlo più; mi chiudo; evito qualunque
manifestazione esteriore; ho paura che ogni minimo urto possa
sollevare nel fondo del tuo spirito quei sedimenti oscuri che vi ha
accumulati la vita irrevocabile. E allora cadono su noi quei lunghi
silenzi angosciosi, in cui le forze del cuore si consumano
inutilmente, miseramente. Io ti domando: «A che pensi?» Tu mi
rispondi: «A che pensi?» Io non so il tuo pensiero; tu non sai il
mio. Il distacco si fa sempre più profondo; diventa un abisso. E il
guardare in quell'abisso è un'angoscia così forte che, per una
specie d'istinto cieco, io mi getto sul tuo corpo, ti stringo, ti
soffoco, impaziente di possederti. La voluttà è alta, come non mai.
Ma quale voluttà può compensare l'immensa tristezza che
sopraggiunge?
Ippolita disse:
- Io non provo questo. Io ho più
abbandono. Forse, amo di più.
Di nuovo, questa affermazione di
superiorità punse l'infermo.
Ippolita disse:
- Tu pensi troppo. Tu segui troppo il tuo
pensiero. Il tuo pensiero ti attrae forse più che io non ti
attragga, perché è sempre nuovo e sempre diverso; mentre io ho già
perduta ogni novità. Nei primi tempi del tuo amore, tu eri meno
pensoso e più spontaneo. Non avevi ancóra preso il gusto delle cose
amare, perché eri più largo di baci che di parole. Già che, come tu
dici, la parola è un segno imperfetto, non bisogna abusarne. Tu ne
abusi, quasi sempre con crudeltà.
Poi, dopo un intervallo di silenzio,
allettata ella stessa da una frase, non potendo resistere al
desiderio di proferirla, soggiunse:
- L'anatomia presuppone il cadavere.
Come l'ebbe proferita, si pentì. La frase
le parve volgarissima, poco feminina, acerba. Ella si rammaricò di
non aver conservato quel tono di dolcezza e d'indulgenza, da cui
dianzi Giorgio era rimasto confuso. Ancóra una volta ella mancava
al proposito d'essere per l'amico una paziente e delicata
medicatrice.
- Vedi, - ella disse, mostrando nella voce
quel rammarico - tu mi guasti.
Egli appena sorrise. Ambedue sentivano che
in quella disputa non avevano ferito se non l'amore.
La carrozza prelatizia ripassò, al piccolo
trotto di due cavalli neri dalle code intonse. Gli alberi
prendevano un'apparenza spettrale, come più l'aria s'illividiva nel
tramonto umidiccio. Plumbee violacee le nuvole fumigavano, sul
Palatino, sul Vaticano. Una striscia di luce gialla come solfo,
diritta come una spada, rasentava il Monte Mario, dietro i cipressi
aguzzi.
Giorgio pensava: «Mi ama ella ancóra? E
perché è così irritabile? Sente ella forse che io dico la verità o
ciò che sta per essere la verità? L'irritazione è un sintomo. Ma
questa irritazione sorda e continua non è anche in fondo a me? Io
so in me la causa vera. Sono geloso. Di che? Di tutto: - delle cose
che si riflettono ne' suoi occhi… »
Egli la guardò. «È bellissima, oggi. È
pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata. Quando ella
si colorisce, mi pare un'altra. Quando ella ride non posso
difendermi da un vago sentimento ostile, quasi d'ira contro il suo
riso. Non però sempre.»
Il suo pensiero si perse nel pomeriggio.
Notò fuggevolmente una segreta rispondenza tra l'aspetto della sera
e l'aspetto dell'amata, godendone. Dal pallore di quel volto bruno
traspariva come una leggera soffusione di viola sotto la pelle; ed
ella aveva intorno al collo un piccolo nastro giallo,
delicatissimo, che lasciava scoperti i due nèi bruni. «È molto
bella. Il suo viso ha quasi sempre un'espressione profonda,
significativa, appassionata. Qui sta il segreto del suo fascino. La
sua bellezza non mi stanca mai; mi suggerisce sempre un sogno. Di
che si compone la sua bellezza? Non saprei dire. Materialmente, non
è bella. Qualche volta, guardandola, io ho provata la sorpresa
penosa di una disillusione. I suoi lineamenti mi sono apparsi nella
loro materiale verità, non modificati, non illuminati dalla forza
di un'espressione spirituale. Ella ha però tre divini elementi di
bellezza: la fronte, gli occhi, la bocca: divini.»
Gli si ripresentò al pensiero il riso.
«Che mi raccontava ella, ieri? Mi raccontava non so più che cosa,
di sua sorella: un piccolo fatto comico avvenuto in casa di sua
sorella, a Milano, quando ella era là… Che ridere!… Ella
dunque poteva ridere, lontana da me; poteva essere gaia.
Ed ho le sue lettere. Tutte le sue lettere sono piene di tristezza,
di pianto, di desiderio disperato.»
Egli provò un'acuta puntura, e poi una
inquietudine tumultuosa come se fosse d'innanzi a un fatto grave ed
irreparabile ma non bene chiarito. Avveniva in lui il consueto
fenomeno della esagerazione sentimentale, per via d'imagini
associate. Quell'innocente scoppio di risa si mutava in una ilarità
continua, di tutti i giorni, di tutte l'ore, per tutto il periodo
dell'assenza. Ippolita aveva vissuto lietamente, d'una vita
volgare, tra gente ch'egli non conosceva, tra gli amici del
cognato, tra ammiratori, tra gente stupida. Le sue lettere dolorose
mentivano. Un brano d'una lettera gli tornò nella memoria, preciso.
- Qui la vita è insopportabile. Amici ed amiche ci assediano;
non ci lasciano in pace un'ora. Tu sai la cordialità milanese…
- Una chiara visione gli sorse nello spirito: Ippolita in mezzo a
una folla borghese d'impiegati, d'avvocati, di mercanti. Ella
sorrideva a tutti, stendeva a tutti la mano, ascoltava i discorsi
melensi, rispondeva una frase sciocca, si mescolava a quella
volgarità.
In quel momento gli pesò sul cuore tutta
la sofferenza provata in due anni al pensiero della vita che la sua
amante conduceva, tra gente sconosciuta, nelle ore in cui ella non
poteva restare con lui. «Che fa ella? Chi vede? Con chi parla?
Quale atteggiamento ha verso quelle persone che ella conosce, con
cui ella convive?» Eterne interrogazioni, senza risposta.
Il tormentato pensò: «Ognuna di quelle
persone le toglie qualche cosa; toglie qualche cosa a me. Io non
saprò mai quali influenze quelle persone abbiano esercitato su di
lei; quali sentimenti, quali pensieri abbiano suscitato in lei.
Ella è bella, piena di seduzioni; ha quel genere di bellezza che
flagella gli uomini e li fa desiderosi. In mezzo a quella orribile
folla, ella è stata desiderata. Il desiderio di un uomo trasparisce
da uno sguardo, e lo sguardo è libero; e una donna è in balìa dello
sguardo di chi la desidera. Che prova una donna, accorgendosi
d'essere desiderata? Non rimane, certo, impassibile. Deve avvenire
in lei un turbamento, un qualsiasi moto; e sia pure di ripugnanza,
e sia pure di ribrezzo. Ora, ecco che un qualunque uomo può turbare
la donna che mi ama. Qual sorta di possesso è dunque il mio?»
Egli soffriva forte, poiché le imagini
fisiche illustravano il suo ragionamento interiore.
«Io amo Ippolita; con una passione che io
crederei inestinguibile, se non sapessi che ogni amore umano deve
avere una fine. Io l'amo e non imagino voluttà più alte di quelle
che ho da lei. Pure, più d'una volta, vedendo passare una donna, io
sono stato assalito da un desiderio repentino; più d'una volta, due
occhi di donna, veduti in qualche luogo, fuggevolmente, mi hanno
lasciato nell'anima non so che vago solco di malinconia. Più d'una
volta, ho pensato d'una donna che passava, d'una donna incontrata
in un salotto, dell'amante d'un mio amico: - Quale sarà la sua
maniera di amare? Quale sarà il suo segreto voluttuoso? - E per
qualche tempo quella donna ha incitata la mia imaginazione, senza
troppa vivezza, ma con una insistenza lenta, a intervalli. Taluna
di quelle imagini s'è anche presentata d'improvviso nel mio
spirito, mentre io tenevo sotto le mie carezze Ippolita. Or bene,
perché ella stessa non potrebbe essere sorpresa da un desiderio
vedendo passare un uomo? Se io avessi il dono di guardarla
nell'anima e la vedessi attraversata da uno di quei desiderii, sia
pure come da un lampo, certo io crederei macchiata la mia amante
d'una macchia indelebile e crederei morire di dolore. Io non potrò
mai avere questa prova materiale, perché natura vuole che l'anima
della mia amante sia invisibile e impalpabile, pur essendo assai
più del corpo esposta alle violazioni. Ma le analogie m'illuminano.
La possibilità non è dubbia. Forse, in questo istante medesimo,
ella guarda dentro di sé una macchia recente e la vede, sotto il
suo sguardo, dilatarsi.»
Egli ebbe un gran sussulto, all'urto del
dolore. Ippolita gli chiese, con voce dolce:
- Che hai? A che pensavi?
Egli rispose:
- A te.
- Come?
- Male.
Ippolita sospirò. Poi chiese:
- Vuoi che andiamo?
Egli rispose:
- Andiamo.
Si levarono. Si rimisero per la via che
avevano dianzi percorsa. Ippolita disse, piano, con le lacrime
nella voce:
- Che sera triste, amor mio!
Si soffermò, come per raccogliere e per
assaporare la tristezza sparsa nel giorno morente. Il Pincio,
intorno, era deserto ormai, silenzioso, pieno d'un'ombra violetta
in cui le erme biancheggiavano come sepolcri. La città sottoposta
si copriva di ceneri. Gocce di pioggia, rare, cadevano.
- Dove andrai stasera? - chiese ella. -
Che farai?
Egli rispose, desolato:
- Io non so che farò.
Mentre soffrivano stando l'uno presso
l'altra, pensavano con terrore a una nota e ben più dura sofferenza
che li aspettava. Essi sapevano quale orribile strazio le
imaginazioni notturne avrebbero fatto delle loro anime senza
difesa.
- Se tu vuoi, vengo da te, questa notte -
disse Ippolita, timidamente.
L'amante, che si sentiva dentro divorare
da un sordo rancore ed incitare come da una smania d'esser cattivo,
di vendicarsi, rispose:
- No.
Ma il cuore gli oppose: «Tu non potrai
rimaner lontano da lei, questa notte; non potrai, non potrai.» E,
in mezzo alle cieche incitazioni ostili, sentendo questa
impossibilità, avendo chiara conscienza di questa assoluta
impossibilità, egli provò una specie di brivido interno, uno strano
brivido come di esaltante fierezza, in conspetto della grande
passione da cui era posseduto. Ripeté a sé medesimo: «Io non potrò
rimanere lontano da lei, questa notte; non potrò.» Ebbe il
sentimento oscuro d'una forza estranea che lo dominava. Un soffio
tragico gli passò su lo spirito.
- Giorgio! - esclamò Ippolita
stringendogli il braccio, un poco sbigottita.
Egli trasalì. Riconobbe il luogo dove
prima s'erano fermati a guardare nel lastrico sottoposto la macchia
di sangue lasciata dal suicida; domandò:
- Hai paura?
Ella rispose tenendogli ancóra il
braccio:
- Un poco.
Egli si staccò da lei, si avvicinò al
parapetto e si sporse. L'ombra già occupava il fondo della strada;
dove egli credette scorgere la macchia nerastra, perché ne aveva
ancora fresca l'imagine nella memoria. Le suggestioni della sera
crearono vagamente un fantasma del corpo morto: una forma indecisa
di giovane, con un capo biondo, sanguinoso. «Chi era colui? Perché
si è ucciso?» Vide sé stesso in quella forma, spento. Alcuni
pensieri, rapidissimi, senza legame, gli attraversarono il
cervello. Rivide come nella luce d'un baleno il suo povero zio
Demetrio, il minor fratello di suo padre, il consanguineo suicida:
- una faccia nascosta da un velo nero, sul guanciale bianco; una
mano lunga, pallida, ma piena d'una espressione virile; su la
parete una piccola pila d'argento, per l'acqua santa, sospesa a tre
catenelle, che si moveva al vento di tratto in tratto con un
tintinno. «Se io mi gettassi? Un semplice salto in avanti; e la
caduta, celere. Si smarrisce la conoscenza, a traverso lo spazio?»
Egli imaginò fisicamente l'urto del corpo contro la pietra; e
rabbrividì. Poi per tutto il corpo provò come una ripulsione forte,
angosciosa e mista d'una strana dolcezza. L'imaginazione gli
rappresentò la delizia della prossima notte: - l'addormentarsi a
poco a poco nel languore; il risvegliarsi con una piena di
tenerezza misteriosamente accumulata nel sonno. Imagini e pensieri
si succedevano in lui con una straordinaria rapidità.
Come si rivolse, incontrò gli occhi di
Ippolita fissi su di lui, grandi, smisurati; e gli parve di leggere
quel che esprimevano. Le si avvicinò; mise il suo braccio sotto il
braccio di lei, con un gesto affettuoso ch'eragli familiare. Ed
ella se lo strinse forte contro il fianco. Ambedue provavano un
bisogno improvviso di stringersi, di mescolarsi, perdutamente.
- Si chiude! Si chiude!
Il grido dei guardiani risonò nel
silenzio, sotto gli alberi.
- Si chiude!
Dopo il grido, il silenzio pareva più
lugubre; e quelle due parole, urlate a squarciagola da uomini
invisibili, davano ai due amanti un urto fastidioso. Per mostrare
che avevano udito e che si disponevano ad uscire, essi affrettarono
il passo. Ma ostinate le voci, di qua, di là, per i viali deserti
ripetevano:
- Si chiude!
- Maledizione! - esclamò Ippolita con un
gesto d'impazienza, esasperata, affrettando ancóra il passo.
La campana della Trinità de' Monti sonò
l'Angelus. Roma apparve come una immensa nuvola grigia, informe,
che radesse il suolo. Qualche finestra, nelle case prossime
sottostanti, già rosseggiava, dilatata dalla caligine. Gocce di
pioggia, rare, cadevano.
- Tu verrai da me, questa notte; è vero? -
chiese Giorgio.
- Sì, sì; verrò.
- Verrai presto?
- Verrò alle undici.
- Se tu non venissi, io morirei.
- Verrò.
Si guardarono negli occhi; si scambiarono
una promessa inebriante.
Egli chiese, vinto dalla tenerezza:
- Mi perdonerai?
Di nuovo si guardarono, con uno sguardo
infinitamente lusinghevole.
Egli disse, piano:
- Adorata!
Ella disse:
- Addio. Fino alle undici, pensami.
- Addio.
Erano in fondo alla via Gregoriana. Si
separarono. Ella discese per la via di Capo Le Case. Egli la guardò
allontanarsi giù pel marciapiede bagnato che riluceva al riflesso
delle vetrine. «Ecco, ella mi lascia. Rientra in una casa a me
ignota, rientra nella sua vita volgare, si spoglia dell'idealità di
cui la vesto; diventa un'altra donna, una donna comune. Io non so
più nulla di lei. Le brutte necessità della vita la prendono, la
occupano, la umiliano… » Dalla bottega di un fioraio gli venne sul
viso un profumo di violette. Il cuore gli si gonfiò di aspirazioni
confuse. «Ah, perché dunque non potremmo noi rendere la nostra
esistenza conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi
soli?»