Soleano gli spiriti egregii in tutte le azzioni loro per uno
acceso desiderio di gloria non perdonare ad alcuna fatica,
quantunche gravissima, per condurre le opere loro a quella
perfezzione, che le rendesse stupende e maravigliose a tutto il
mondo; né la bassa fortuna di molti poteva ritardare i loro sforzi
dal pervenire a sommi gradi, sì per vivere onorati, e sì per
lasciare ne’ tempi a venire eterna fama d’ogni rara loro
eccellenza. Et ancora che di così laudabile studio e desiderio
fussero in vita altamente premiati dalla liberalità de’ principi, e
dalla virtuosa ambizione delle repubbliche, e dopo morte ancora
perpetuati nel cospetto del mondo con le testimonianze delle
statue, delle sepulture, delle medaglie et altre memorie simili, la
voracità del tempo, nondimeno, si vede manifestamente che non solo
ha scemate le opere proprie e le altrui onorate testimonianze di
una gran parte, ma cancellato e spento i nomi di tutti quelli che
ci sono stati serbati da qualunque altra cosa, che dalle sole
vivacissime e pietosissime penne delli scrittori. La qual cosa più
volte meco stesso considerando, e conoscendo non solo con l’esempio
degli antichi ma de’ moderni ancora che i nomi di moltissimi vecchi
e moderni architetti, scultori e pittori, insieme con infinite
bellissime opere loro in diverse parti d’Italia si vanno
dimenticando e consumando a poco a poco, e di una maniera, per il
vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte
molto vicina, per difenderli il più che io posso da questa seconda
morte, e mantenergli più lungamente che sia possibile nelle memorie
de’ vivi, avendo speso moltissimo tempo in cercar quelle, usato
diligenzia grandissima in ritrovare la patria, l’origine, e le
azzioni degli artefici, e con fatica grande ritrattole dalle
relazioni di molti uomini vecchi, e da diversi ricordi e scritti
lasciati dagli eredi di quelli in preda della polvere e cibo de’
tarli, e ricevutone finalmente et utile e piacere; ho giudicato
conveniente, anzi debito mio, farne quella memoria che il mio
debole ingegno et il poco giudizio potrà fare. A onore, dunque, di
coloro che già sono morti, e benefizio di tutti gli studiosi
principalmente di queste tre arti eccellentissime Architettura,
Scultura e Pittura, scriverò le vite delli artefici di ciascuna,
secondo i tempi che ei sono stati, di mano in mano da Cimabue
insino a oggi; non toccando altro degli antichi, se non quanto
facesse al proposito nostro, per non se ne poter dire più che se ne
abbino detto quei tanti scrittori che sono pervenuti alla età
nostra. Tratterò bene di molte cose che si appartengono al
magistero di qual si è l’una delle arti dette, ma prima che io
venga a’ segreti di quelle, o alla istoria delli artefici, mi par
giusto toccare in parte una disputa nata e nutrita tra molti senza
proposito, del principato e nobiltà, non dell’architettura, che
questa hanno lasciata da parte, ma della scultura e della pittura,
essendo per l’una e l’altra parte addotte, se non tutte, almeno
molte ragioni degne di esser udite e per gl’artefici loro
considerate. Dico, dunque, che gli scultori, come dotati forse
dalla natura e dall’esercizio dell’arte di miglior complessione, di
più sangue e di più forze, e per questo più arditi e animosi de’
pittori, cercando d’attribuir il più onorato grado all’arte loro,
arguiscono e provano la nobiltà della scultura primieramente
dall’antichità sua, per aver il grande Iddio fatto l’uomo, che fu
la prima scultura; dicono che la scultura abbraccia molte più arti
come congeneri e ne ha molte più sottoposte che la pittura: come il
basso rilievo, il far di terra, di cera, o di stucco, di legno,
d’avorio, il gettare de’ metalli, ogni ceselamento, il lavorare
d’incavo o di rilievo nelle pietre fini e negl’acciai, et altre
molte, le quali e di numero e di maestria avanzano quelle della
pittura. Et allegando ancora che quelle cose che si difendono più e
meglio dal tempo, e più si conservano all’uso degl’uomini, a
benefizio e servizio de’ quali elle son fatte, sono senza dubbio
più utili e più degne d’esser tenute care et onorate che non sono
l’altre, affermano la scultura esser tanto più nobile della
pittura, quanto ella è più atta a conservare e sé ed il nome di chi
è celebrato da lei ne’ marmi e ne’ bronzi, contro a tutte
l’ingiurie del tempo e dell’aria, che non è essa pittura; la quale
di sua natura pure, non che per gl’accidenti di fuora, perisce
nelle più riposte e più sicure stanze ch’abbino saputo dar loro
gl’architettori. Vogliano eziandio che il minor numero loro, non
solo degl’artefici eccellenti ma degl’ordinari, rispetto
all’infinito numero de’ pittori, arguisca la loro maggiore nobiltà;
dicendo che la scultura vuole una certa migliore disposizione e
d’animo e di corpo, che rado si truova congiunto insieme; dove la
pittura si contenta d’ogni debole complessione, pur ch’abbia la man
sicura se non gagliarda; e che questo intendimento loro si pruova
similmente da’ maggiori pregi citati particolarmente da Plinio,
dagl’amori causati dalla maravigliosa bellezza di alcune statue e
dal giudizio di colui che fece la statua della Scultura d’oro, e
quella della Pittura d’argento, e pose quella alla destra e questa
alla sinistra. Né lasciano ancora d’allegare le difficultà, prima,
dell’aver la materia subietta, come i marmi e i metalli, e la
valuta loro rispetto alla facilità dell’avere le tavole, le tele et
i colori, a piccolissimi pregi et in ogni luogo; di poi l’estreme e
gravi fatiche del maneggiar i marmi et i bronzi per la gravezza
loro, e del lavorargli per quella degl’istrumenti, rispetto alla
leggerezza de’ pennegli, degli stili e delle penne, disegnatoi e
carboni; oltra che di loro si affatica l’animo con tutte le parti
del corpo; et è cosa gravissima rispetto alla quieta e leggera
opera dell’animo e della mano sola del dipintore. Fanno appresso
grandissimo fondamento sopra l’essere le cose tanto più nobili e
più perfette, quanto elle si accostano più al vero. E dicono che la
scultura imita la forma vera, e mostra le sue cose, girandole
intorno, a tutte le vedute; dove la pittura, per esser spianata con
semplicissimi lineamenti di pennello, e non avere che un lume solo,
non mostra che una apparenza sola. Né hanno rispetto a dire molti
di loro, che la scultura è tanto superiore alla pittura, quanto il
vero alla bugia. Ma per la ultima e più forte ragione, adducono che
allo scultore è necessario non solamente la perfezione del giudizio
ordinaria come al pittore, ma assoluta e subìta, di maniera che
ella conosca sin dentro a’ marmi l’intero a punto di quella figura
ch’essi intendono di cavarne, e possa senza altro modello prima far
molte parti perfette che e’ le accompagni ed unisca insieme: come
ha fatto divinamente Michelagnolo; avvenga che, mancando di questa
felicità di giudizio, fanno agevolmente e spesso di quelli
inconvenienti che non hanno rimedio, e che, fatti, son sempre
testimonii degl’errori dello scarpello, o del poco giudizio dello
scultore, la qual cosa non avviene a’ pittori. Perciò che ad ogni
errore di pennello o mancamento di giudizio che venisse lor fatto,
hanno tempo, conoscendogli da per loro o avvertiti da altri, a
ricoprirli e medicarli con il medesimo pennello che l’aveva fatto;
il quale nelle man loro ha questo vantaggio dagli scarpelli dello
scultore, ch’egli non solo sana, come faceva il ferro della lancia
d’Achille, ma lascia senza margine le sue ferite. Alle quali cose
rispondendo i pittori, non senza sdegno dicono primieramente, che
volendo gli scultori considerare la cosa in sagrestia, la prima
nobiltà è la loro; e che gli scultori s’ingannano di gran lunga a
chiamare opera loro la statua del primo Padre, essendo stata fatta
di terra. L’arte della qual operazione mediante il suo levare e
porre non è manco de’ pittori che d’altri, e fu chiamata plastice
da’ Greci e fictoria da’ Latini, e da Prassitele fu giudicata madre
della scultura, del getto e del cesello, cosa che fa la scultura
veramente nipote alla pittura; conciò sia che la plastice e la
pittura naschino insieme e subito dal disegno. Et esaminata fuori
di sagrestia, dicono che tante sono e sì varie l’opinioni de’
tempi, che male si può credere più all’una che all’altra; e che
considerato finalmente questa nobiltà, dove e’ vogliono, nell’uno
de’ luoghi perdono e nell’altro non vincono, siccome nel Proemio
delle Vite più chiaramente potrà vedersi. Appresso, per riscontro
dell’arti congeneri e sottoposte alla scultura, dicono averne molte
più di loro: perché la pittura abbraccia l’invenzione dell’istoria,
la difficilissima arte degli scorti, tutti i corpi
dell’architettura per poter far i casamenti e la prospettiva, il
colorire a tempera, l’arte del lavorare in fresco, differente e
vario da tutti gl’altri; similmente il lavorar a olio, in legno, in
pietra, in tele, et il miniare, arte differente da tutte; le
finestre di vetro, il musaico de’ vetri, il commetter le tarsie di
colori facendone istorie con i legni tinti, ch’è pittura; lo
sgraffire le case con il ferro, il niello, e le stampe di rame,
membri della pittura; gli smalti degl’orefici, il commetter l’oro
alla damaschina; il dipigner le figure invetriate, e fare ne’ vasi
di terra istorie ed altre figure, che tengono all’acqua, il tesser
i broccati con le figure e’ fiori, e la bellissima invenzione
degl’arazzi tessuti, che fa commodità e grandezza; potendo portar
la pittura in ogni luogo, e salvatico e domestico: senzaché in ogni
genere, che bisogna esercitarsi, il disegno, ch’è disegno nostro,
l’adopra ognuno. Sì che molti più membri ha la pittura e più utili
che non ha la scultura. Non niegano l’eternità, poiché così la
chiamano, delle sculture, ma dicono questo non esser privilegio che
faccia l’arte più nobile ch’ella si sia di sua natura, per esser
semplicemente della materia; e che se la lunghezza della vita desse
all’anime nobiltà, il pino tra le piante, et il cervio tra
gl’animali, arebbon l’anima oltramodo più nobile che non ha l’uomo;
nonostante che ei potessino addurre una simile eternità e nobiltà
di materia ne’ musaici loro, per vedersene delli antichissimi
quanto le più antiche sculture che siano in Roma, ed essendosi
usato di farli di gioie e pietre fini. E quanto al piccolo o minor
numero loro, affermano che ciò non è perché l’arte ricerchi miglior
disposizione di corpo et il giudizio maggiore, ma che ei dipende in
tutto dalla povertà delle sustanze loro, e dal poco favore o
avarizia, che vogliamo chiamarlo, degli uomini ricchi; i quali non
fanno loro commodità de’ marmi, né danno occasione di lavorare;
come si può credere e vedesi che si fece ne’ tempi antichi, quando
la scultura venne al sommo grado. Et è manifesto che chi non può
consumare o gittar via una piccola quantità di marmi e pietre
forti, le quali costano pur assai, non può fare quella pratica
nell’arte che si conviene: chi non vi fa la pratica non l’impara, e
chi non l’impara non può far bene. Per la qual cosa doverrebbono
escusare piuttosto con queste cagioni la imperfezzione e il poco
numero degli eccellenti, che cercare di trarre da esse, sotto un
altro colore, la nobiltà. Quanto a’ maggior pregi delle sculture,
rispondono che, quando i loro fussino bene minori, non hanno a
compatirli, contentandosi di un putto che macini loro i colori e
porga i pennelli o le predelle di poca spesa: dove gli scultori
oltre alla valuta grande della materia vogliono di molti aiuti, e
mettono più tempo in una sola figura che non fanno essi in molte e
molte; per il che appariscano i pregi loro essere più della qualità
e durazione di essa materia, degl’aiuti ch’ella vuole a condursi e
del tempo che vi si mette a lavorarla, che dell’eccellenza
dell’arte stessa. E quando questa non serva, né si truovi prezzo
maggiore, come sarebbe facil cosa a chi volesse diligentemente
considerarla, truovino un prezzo maggiore del maraviglioso bello e
vivo dono, che alla virtuosissima et eccellentissima opera d’Apelle
fece Alessandro il Magno, donandogli non tesori grandissimi o
stato, ma la sua amata e bellissima Campsaspe; et avvertischino di
più, che Alessandro era giovane, innamorato di lei, e naturalmente
agli affetti di Venere sottoposto, e re insieme e Greco; e poi ne
faccino quel giudizio che piace loro. Agli amori di Pigmalione, e
di quegli altri scelerati, non degni più d’essere uomini, citati
per pruova della nobiltà dell’arte, non sanno che si rispondere, se
da una grandissima cecità di mente, e da una sopra ogni natural
modo sfrenata libidine, si può fare argumento di nobiltà. E di quel
non so chi allegato dagli scultori d’aver fatto la Scultura d’oro e
la Pittura d’argento, come di sopra, consentono che se egli avesse
dato tanto segno di giudizioso quanto di ricco, non sarebbe da
disputarla. E concludono finalmente che l’antico vello dell’oro,
per celebrato che e’ sia, non vestì però altro che un montone senza
intelletto: per il che né il testimonio delle ricchezze, né quello
delle voglie disoneste, ma delle lettere, dell’esercizio, della
bontà e del giudizio, son quelli a chi si debbe attendere. Né
rispondono altro alla difficultà dell’avere i marmi e i metalli, se
non che questo nasce dalla povertà propria e dal poco favore de’
potenti, come si è detto, e non da grado di maggiore nobiltà.
All’estreme fatiche del corpo et a’ pericoli propri e dell’opere
loro, ridendo e senza alcun disagio rispondono che se le fatiche et
i pericoli maggiori arguiscono maggiore nobiltà, l’arte del cavare
i marmi delle viscere de’ monti per adoperare i conii, i pali e le
mazze, sarà più nobile della scultura; quella del fabbro avanzerà
l’orefice, e quella del murare, l’architettura. E dicono appresso
che le vere difficultà stanno più nell’animo che nel corpo; onde
quelle cose che di loro natura hanno bisogno di studio e di sapere
maggiore, son più nobili ed eccellenti di quelle che più si servono
della forza del corpo; e che valendosi i pittori della virtù
dell’animo più di loro, questo primo onore si appartiene alla
pittura. Agli scultori bastano le seste o le squadre a ritrovare e
riportare tutte le proporzioni e misure che eglino hanno di
bisogno; a’ pittori è necessario, oltre al sapere ben adoperare i
sopradetti strumenti, una accurata cognizione di prospettiva, per
avere a porre mille altre cose, che paesi o casamenti; oltra che
bisogna aver maggior giudicio per la quantità delle figure in una
storia, dove può nascer più errori, che in una sola statua. Allo
scultore basta aver notizia delle vere forme e fattezze de’ corpi
solidi e palpabili e sottoposti in tutto al tatto, e di quei soli
ancora che hanno chi gli regge. Al pittore è necessario non solo
conoscere le forme di tutti i corpi retti e non retti, ma di tutti
i trasparenti et impalpabili; et oltra questo bisogna ch’e’ sappino
i colori che si convengono a’ detti corpi, la multitudine e la
varietà de’ quali, quanto ella sia universalmente e proceda quasi
in infinito, lo dimostrano meglio che altro i fiori et i frutti
oltre a’ minerali; cognizione sommamente difficile ad acquistarsi
ed a mantenersi per la infinita varietà loro. Dicono ancora, che
dove la scultura, per l’inobbedienza et imperfezzione della
materia, non rappresenta gli affetti dell’animo, se non con il
moto, il quale non si stende però molto in lei, e con la fazione
stessa de’ membri, né anche tutti i pittori gli dimostrano con
tutti i moti, che sono infiniti, con la fazione di tutte le membra,
per sottilissime che elle siano, ma che più? con il fiato stesso e
con gli spiriti della vista. E che a maggiore perfezzione del
dimostrare non solamente le passioni e gl’effetti dell’animo, ma
ancora gl’accidenti a venire, come fanno i naturali, oltre alla
lunga pratica dell’arte bisogna loro aver una intera cognizione
d’essa fisionomia; della quale basta solo allo scultore la parte
che considera la quantità e forma de’ membri, senza curarsi della
qualità de’ colori, la cognizione de’ quali, chi giudica dagli
occhi conosce quanto ella sia utile e necessaria alla vera
imitazione della natura alla quale chi più si accosta è più
perfetto. Appresso soggiungono che, dove la scultura levando a poco
a poco in un medesimo tempo dà fondo et acquista rilievo a quelle
cose che hanno corpo di loro natura, e servesi del tatto e del
vedere, i pittori in due tempi danno rilievo e fondo al piano con
l’aiuto di un senso solo; la qual cosa, quando ella è stata fatta
da persona intelligente dell’arte, con piacevolissimo inganno ha
fatto rimanere molti grandi uomini, per non dire degli animali: il
che non si è mai veduto della scultura, per non imitare la natura
in quella maniera che si possa dire tanto perfetta quanto è la
loro. E finalmente, per rispondere a quella intera ed assoluta
perfezzione di giudizio che si richiede alla scultura, per non aver
modo di aggiugnere dove ella leva, affermando prima che tali errori
sono, come ei dicano, incorregibili, né si può rimediare loro senza
le toppe, le quali così come ne’ panni sono cose da poveri di roba,
nelle sculture e nelle pitture similmente son cose da poveri
d’ingegno e di giudizio. Di poi che la pazienza con un tempo
conveniente, mediante i modelli, le centine, le squadre, le seste
et altri mille ingegni e strumenti da riportare, non solamente gli
difendano dagli errori, ma fanno condur loro il tutto alla sua
perfezzione, concludono che questa difficultà che ei mettano per la
maggiore, è nulla o poco rispetto a quelle che hanno i pittori nel
lavorare in fresco; e che la detta perfezzione di giudizio non è
punto più necessaria alli scultori che a’ pittori, bastando a
quelli condurre i modelli buoni di cera, di terra, o d’altro, come
a questi i loro disegni in simili materie pure o ne’ cartoni, e che
finalmente quella parte che riduce a poco a poco loro i modelli ne’
marmi, è più tosto pazienza che altro. Ma chiamisi giudizio, come
vogliono gli scultori, se egli è più necessario a chi lavora in
fresco, che a chi scarpella ne’ marmi. Perciò che in quello non
solamente non ha luogo né la pacienza né il tempo, per essere
capitalissimi inimici della unione della calcina e de’ colori, ma
perché l’occhio non vede i colori veri, insino a che la calcina non
è ben secca, né la mano vi può aver giudizio d’altro che del molle
o secco; di maniera che chi lo dicesse lavorare al buio o con
occhiali di colori diversi dal vero, non credo che errasse di
molto, anzi non dubito punto che tal nome non se li convenga più
che al lavoro d’incavo, al quale per occhiali, ma giusti e buoni,
serve la cera. E dicono che a questo lavoro è necessario avere un
giudizio risoluto, che antivegga la fine nel molle, e quale egli
abbia a tornar poi secco; oltra che non si può abbandonare il
lavoro mentre che la calcina tiene del fresco, e bisogna
risolutamente fare in un giorno quello che fa la scultura in un
mese. E chi non ha questo giudizio e questa eccellenzia, si vede
nella fine del lavoro suo, o col tempo, le toppe, le macchie, i
rimessi, et i colori soprapposti o ritocchi a secco, che è cosa
vilissima; per che vi si scuoprono poi le muffe, e fanno conoscere
la insufficienza et il poco sapere dello artefice suo, sì come
fanno bruttezza i pezzi rimessi nella scultura; senzaché, quando
accade lavare le figure a fresco, come spesso dopo qualche tempo
avviene, per rinovarle, quello che è lavorato a fresco rimane, e
quello che a secco è stato ritocco, è dalla spugna bagnata portato
via. Soggiungono ancora, che dove gli scultori fanno insieme due o
tre figure al più d’un marmo solo, essi ne fanno molte in una
tavola sola, con quelle tante e sì varie vedute che coloro dicono
che ha una statua sola, ricompensando con la varietà delle
positure, scorci et attitudini loro il potersi vedere intorno
intorno quelle degli scultori; come già fece Giorgione da
Castelfranco in una sua pittura: la quale, voltando le spalle et
avendo due specchi, uno da ciascun lato, et una fonte d’acqua a’
piedi, mostra nel dipinto il dietro, nella fonte il dinanzi e negli
specchi gli lati: cosa che non ha mai potuto far la scultura.
Affermano, oltra di ciò, che la pittura non lascia elemento alcuno
che non sia ornato e ripieno di tutte le eccellenzie che la natura
ha dato loro, dando la sua luce o le sue tenebre alla aria con
tutte le sue varietà et impressioni, et empiendola insieme di tutte
le sorti degli uccegli; alle acque la trasparenza, i pesci, i
muschi, le schiume, il variare delle onde, le navi, e l’altre sue
passioni; alla terra i monti, i piani, le piante, i frutti, i
fiori, gli animali, gli edifizii, con tanta moltitudine di cose e
varietà delle forme loro e de’ veri colori, che la natura stessa
molte volte n’ha maraviglia: e dando finalmente al fuoco tanto di
caldo e di luce, che e’ si vede manifestamente ardere le cose, e
quasi tremolando nelle sue fiamme render in parte luminose le più
oscure tenebre della notte. Per le quali cose par loro potere
giustamente conchiudere e dire, che, contraposte le difficultà
degli scultori alle loro, le fatiche del corpo alle fatiche
dell’animo, la imitazione circa la forma sola alla imitazione della
apparenzia circa la quantità e la qualità che viene a lo occhio, il
poco numero delle cose dove la scultura può dimostrare e dimostra
la virtù sua allo infinito di quelle che la pittura ci rappresenta,
oltre il conservarle perfettamente allo intelletto e farne parte in
que’ luoghi che la natura non ha fatto ella; e contrapesato,
finalmente, le cose dell’una alle cose dell’altra, la nobiltà della
scultura, quanto all’ingegno, alla invenzione et al giudizio degli
artefici suoi, non corrisponde a gran pezzo a quella che ha e
merita la pittura. E questo è quello che per l’una e per l’altra
parte mi è venuto agli orecchi degno di considerazione. Ma perché a
me pare che gli scultori abbino parlato con troppo ardire, et i
pittori con troppo sdegno, per avere io assai tempo considerato le
cose della scultura, et essermi esercitato sempre nella pittura,
quantunque piccolo sia forse il frutto che se ne vede, nondimeno e
per quel tanto che egli è, e per la impresa di questi scritti,
giudicando mio debito dimostrare il giudizio che nello animo mio ne
ho fatto sempre, e vaglia l’autorità mia quanto ella può, dirò
sopra tal disputa sicuramente e brevemente il parer mio,
persuadendomi di non sottentrare a carico alcuno di prosunzione o
d’ignoranza, non trattando io de l’arti altrui come hanno già fatto
molti per apparire nel vulgo intelligenti di tutte le cose mediante
le lettere, e come tra gli altri avvenne a Formione peripatetico,
in Efeso, che ad ostentazione della eloquenza sua, predicando e
disputando de le virtù e parti dello eccellente capitano, non meno
della prosunzione che della ignoranza sua fece ridere Annibale.
Dico, adunque, che la scultura e la pittura per il vero sono
sorelle, nate di un padre che è il disegno, in un sol parto et ad
un tempo; e non precedono l’una alla altra, se non quanto la virtù
e la forza di coloro che le portano addosso fa passare l’uno
artefice innanzi a l’altro; e non per differenzia o grado di
nobiltà che veramente si trovi in fra di loro. E sebbene per la
diversità dell’essenzia loro hanno molte agevolezze, non sono
elleno però né tante né di maniera ch’elle non venghino giustamente
contrapesate insieme, e non si conosca la passione o la caparbietà,
più tosto che il giudizio di chi vuole che l’una avanzi l’altra.
Laonde a ragione si può dire che un’anima medesima regga due corpi;
et io per questo conchiudo, che male fanno coloro che s’ingegnano
di disunirle e di separarle l’una da l’altra. De la qual cosa
volendoci forse sgannare il cielo e mostrarci la fratellanza e la
unione di queste due nobilissime arti, ha in diversi tempi fattoci
nascere molti scultori che hanno dipinto, e molti pittori che hanno
fatto delle sculture; come si vedrà nella vita d’Antonio del
Pollaiuolo, di Lionardo da Vinci e di molti altri di già passati.
Ma nella nostra età ci ha prodotto la bontà divina Michelagnolo
Buonarroti; nel quale amendue queste arti sì perfette rilucono e sì
simili et unite insieme appariscono, che i pittori delle sue
pitture stupiscono, e gli scultori le sculture fatte da lui
ammirano e reveriscono sommamente. A costui, perché egli non avesse
forse a cercare da altro maestro dove agiatamente collocare le
figure fatte da lui, ha la natura donato sì fattamente la scienza
dell’architettura, che senza avere bisogno d’altrui, può e vale da
sé solo et a queste e quelle imagini da lui formate dare onorato
luogo et ad esse conveniente: di maniera che egli meritamente debbe
esser detto scultore unico, pittore sommo ed eccellentissimo
architettore, anzi dell’architettura vero maestro. E ben possiamo
certo affermare che e’ non errano punto coloro che lo chiamano
divino; poiché divinamente ha egli in sé solo raccolte le tre più
lodevoli arti e le più ingegnose che si truovino tra’ mortali, e
con esse, ad essempio d’uno Iddio, infinitamente ci può giovare. E
tanto basti per la disputa fatta dalle parti, e per la nostra
opinione. E tornando oramai al primo proposito, dico che, volendo,
per quanto si estendono le forze mie, trarre dalla voracissima
bocca del tempo i nomi degli scultori, pittori ed architetti, che
da Cimabue in qua sono stati in Italia di qualche eccellenza
notabile, e desiderando che questa mia fatica sia non meno utile,
che io me la sia proposta piacevole, mi pare necessario, avanti che
e’ si venga all’istoria, fare sotto brevità una introduzzione a
quelle tre arti, nelle quali valsero coloro di chi io debbo
scrivere le vite; a cagione che ogni gentile spirito intenda
primieramente le cose più notabili delle loro professioni; et
appresso, con piacere et utile maggiore, possa conoscere
apertamente in che e’ fussero tra sé differenti, e di quanto
ornamento e comodità alle patrie loro, et a chiunque volle valersi
della industria e sapere di quelli. Comincerommi dunque
dall’architettura, come da la più universale e più necessaria ed
utile agli uomini, et al servizio et ornamento della quale sono
l’altre due; e brevemente dimostrerò la diversità delle pietre, le
maniere o modi dell’edificare con le loro proporzioni, et a che si
conoschino le buone fabbriche e bene intese. Appresso ragionando
della scultura, dirò come le statue si lavorino, la forma e la
proporzione che si aspetta loro, e quali siano le buone sculture,
con tutti gli ammaestramenti più segreti e più necessari.
Ultimamente, discorrendo della pittura, dirò del disegno, de’ modi
del colorire, del perfettamente condurre le cose, della qualità di
esse pitture, e di qualunque cosa che da questa dependa; de’
musaici d’ogni sorte, del niello, degli smalti, de’ lavori alla
damaschina, e finalmente poi delle stampe delle pitture. E così mi
persuado, che queste fatiche mie diletteranno coloro che non sono
di questi esercizi, e diletteranno e gioveranno a chi ne ha fatto
professione. Perché, oltra che nella Introduzzione rivedranno i
modi dello operare, e nelle vite di essi artefici impareranno dove
siano l’opere loro, e a conoscere agevolmente la perfezzione o
imperfezzione di quelle, e discernere tra maniera e maniera, e’
potranno accorgersi ancora quanto meriti lode et onore chi con le
virtù di sì nobili arti accompagna onesti costumi e bontà di vita;
et accesi di quelle laudi che hanno conseguite i sì fatti, si
alzeranno essi ancora a la vera gloria. Né si caverà poco frutto de
la storia, vera guida e maestra delle nostre azzioni, leggendo la
varia diversità di infiniti casi occorsi agli artefici, qualche
volta per colpa loro e molte altre della fortuna. Resterebbemi a
fare scusa de lo avere, alle volte, usato qualche voce non ben
toscana; de la qual cosa non vo’ parlare, avendo avuto sempre più
cura di usare le voci et i vocaboli particulari e proprii delle
nostre arti, che i leggiadri o scelti della delicatezza degli
scrittori. Siami lecito adunque usare nella propria lingua le
proprie voci de’ nostri artefici, e contentisi ognuno della buona
volontà mia: la quale si è mossa a fare questo effetto, non per
insegnare ad altri, ché non so per me, ma per desiderio di
conservare almanco questa memoria degli artefici più celebrati;
poiché in tante decine di anni non ho saputo vedere ancora chi
n’abbia fatto molto ricordo. Conciò sia che io ho più tosto voluto
con queste rozze fatiche mie, ombreggiando gli egregii fatti loro,
render loro in qualche parte l’obligo che io tengo alle opere loro,
che mi sono state maestre ad imparare quel tanto che io so, che
malignamente vivendo in ozio esser censore delle opere altrui,
accusandole e riprendendole come alcuni spesso costumano. Ma egli è
oggimai tempo di venire a lo effetto.
IL FINE DEL PROEMIO